Foto-reportage

Ricordi da Sarajevo

Luca Leva, Giulia Ambrosio - 8 Aprile 2014

003_DSC4103Questa ricerca fotografica parte dal corpo dolente di Sarajevo, una delle città più colpite durante il conflitto dei Balcani. Prima del 1991 la città era considerata un esempio mondiale di convivenza multietnica capace di produrre cultura senza confine. Con la dissoluzione della Jugoslavia, iniziata con la morte del Maresciallo Tito (1980), eroe della resistenza antinazista, stavano già riemergendo i nazionalismi. È ormai un dato storicamente riconosciuto che questo corrispondeva anche agli interessi della Nato per giungere ad una dissoluzione di uno Stato ritenuto fastidioso retaggio del passato. Nel marzo del 1991 la Bosnia-Erzegovina aveva dichiarato la propria indipendenza e Sarajevo ne era divenuta la capitale. L’intervento dell’esercito serbo, di quello che restava dell’esercito jugoslavo, la nascita di un esercito serbo-bosniaco, portò a bombardare la città in maniera assurda: si giunse al ritmo di 329 attacchi al giorno. In 4 anni di guerra atroce ogni legame antico venne fatto saltare, si trattò del più grande esempio di pulizia etnica in Europa. Una guerra fratricida, in cui ci si uccideva basandosi sulla religione, sullo schieramento politico, su odi forse mai sopiti. Lo stupro fu arma di guerra, soprattutto nei confronti delle donne musulmane, colpire i civili, togliere loro rifornimenti, servizi, possibilità di vita, divenne la norma. I cecchini spuntavano da ogni angolo, le bombe esplodevano alle file nei mercati o non appena spuntava un piccolo assembramento di civili. Impossibile cercare un unico colpevole, i cetnici serbi, divisi in diverse formazioni politico-militari, una parte dei bosniaci e poi, nella frammentazione dello stato balcanico, anche gli ustascia croati, formazioni che durante il secondo conflitto mondiale erano alleate dell’Italia fascista e della Germania nazista e che intervennero contemporaneamente alla Nato. Dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, giorno del definitivo cessate il fuoco, morirono oltre 12.000 persone e la popolazione della città, che subì il più lungo assedio dalla Prima Guerra Mondiale, si ridusse come numero di abitanti al 64% rispetto al periodo ante guerra, i serbi dal 30% divennero il 10%. In molti e molte scapparono da Sarajevo e dalla intera Bosnia cercando salvezza e rifugio in Europa, soprattutto in Germania e Italia. Non è difficile legarsi a questi luoghi, appassionarsi alle storie che hanno da raccontare, legarsi all’umanità e alle ragioni di chi è stato vittima di uno dei più raccapriccianti genocidi contemporanei. È così che nasce la necessità di raccontare Sarajevo, di lavorare cioè sul ricordo, il nostro ricordo. Per capire che cosa abbia lasciato, dal punto di vista materiale e spirituale, quel conflitto basta attraversare la città, guardarne le crepe sui muri, gli squarci sui palazzi sventrati, le rughe sul volto della gente, anche quelle crepe e squarci ben più profondi… E poi gettare uno sguardo su qualsiasi angolo della città: tombe, tombe e ancora tombe, in cimiteri improvvisati nei giardini della città, nelle piazze, trasformate in pietosi campi della memoria e della vergogna…
Poi ci sono loro, i sarajevesi. È lì che si leggono i segni più evidenti di un conflitto ancora aperto, di un dolore ancora da elaborare, se mai sarà possibile farlo. «Noi con quelli non ci parliamo – sentenziano in molti riferendosi ai Serbi – quelli bruciano ancora i nostri campi nelle zone di confine, e poi ci sono i morti e i morti non si possono dimenticare».

Luca Leva
Giulia Ambrosio