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25 aprile 1814

Daniele Barbieri - 15 Aprile 2014

200px-Louis-Sébastien_Mercier Strano, affascinante libro L’anno 2440 (il titolo originale è L’An 2440, rêve s’il en fut jamais) dell’illuminista francese Louis-Sébastien Mercier, nato nel 1740 e morto nel 1814.
In questo romanzo utopistico, scritto nel 1771, Mercier immagina un «singolare monumento» con cui alcuni popoli in futuro domanderanno perdono all’umanità delle crudeltà commesse. Fra i colpevoli la Spagna che «ha coperto il nuovo continente di 35 milioni di cadaveri, perseguitato i miseri resti di mille popoli fin nel fondo delle foreste e negli anfratti rocciosi, abituando gli animali, meno feroci di loro, a bere il sangue umano».
Il massacro delle popolazioni originarie d’America continuò, come si sa, ben oltre il 1771: inglesi, francesi e via via gli europei che prendevano dimora nel Nuovo mondo o in Africa, continuarono (con rare eccezioni) la strage dei “selvaggi”. Che poi definirli senz’anima, incivili, scimmie, era una comoda bugia. Alcuni di questi selvaggi avevano costruito città, possedevano alfabeti, coltivano, si davano leggi… insomma tutto ciò che – a detta del “bianco” – rappresentava la civiltà.
Mercier fu uno scrittore prolifico ma in Italia poco tradotto. Anche L’anno 2440 non ha avuto in Italia troppa fortuna: due sole edizioni, la prima (Fratelli Treves) nel 1892 e la seconda da Dedalo nel 1993. Un libro che ha innovato la letteratura utopistica e in qualche modo anticipato la moderna fantascienza. In forma di sogno viene descritta una Francia – ma anche un mondo – del futuro, dove trionfano gli ideali di libertà e di progresso dell’Illuminismo: ucronia dunque più che utopia. Per quello che qui ci interessa bisogna notare che Mercier evidentemente temeva che i tempi del massacro e poi del riscatto sarebbero stati lunghissimi, 7 secoli. Solo allora i popoli che furono dominanti chiederanno perdono delle crudeltà commesse contro il resto dell’umanità.
Si può credere o no all’importanza dei monumenti o delle richieste di perdono (come fece Wojtyla, sia pure in modo parziale, ben prima del 2440) ma di certo il mondo cambia soprattutto con gli atti concreti quotidiani. O purtroppo con l’omissione di atti dovuti. C’è dunque una storia – in questa settimana dal 21 al 28 aprile – che va raccontata per ricordarci che le crudeltà razziste, due secoli dopo Mercier, sono ancora fra noi e vengono punite o sconfessate con grande difficoltà.
Stephen Lawrence era un ragazzo di 18 anni, figlio di immigrati dalla Giamaica e viveva a Londra. Dove, la sera del 22 aprile 1993, venne assassinato da una banda di 5 giovani bianchi vicino alla fermata dell’autobus. Nessun pretesto per l’aggressione mortale, dunque un esplicito atto di razzismo. C’erano molti testimoni, eppure le indagini finirono in uno stagno dove indifferenza e complicità si mescolavano.
Ci vollero 18 anni per rendere “giustizia” a Stephen Lawrence, troppo colorato perché la sua morte indignasse tutta l’Inghlterra. Così due di quei 5 ragazzi bianchi che lo aggredirono vennero condannati, il 3 gennaio 2012, per omicidio: Gary Dobson dovrà scontare 15 anni e David Norris 14.
Il caso fu riaperto solo per la lunga lotta della famiglia di Stephen Lawrence e del comitato che la sosteneva, fra cui alcuni giornalisti coraggiosi. In seguito alle proteste per l’inerzia nelle indagini, il ministero dell’Interno inglese affidò un’indagine alla commissione guidata da sir William MacPherson (devo queste informazioni al libro Razzisti per legge di Clelia Bartoli) per verificare se “pregiudizi razziali” avessero bloccato il lavoro della polizia. La risposta arrivò nel febbraio 1999: fu un clamoroso, documentato, terrificante «sì, perché – così recita il rapporto finale – il razzismo attraversa la cultura e le istituzioni di tutta la società britannica». Se grande è la minaccia di una banda di estremisti ben più pericoloso il razzismo istituzionale che emerge.
Il 2440 è troppo lontano ma noi possiamo impegnarci anche adesso contro coloro che, come scriveva Mercier, «perseguitano mille popoli».

Daniele  Barbieri