Testimonianze

Getrude Matshe e il continente Ubuntu

Stefano Galieni - 15 Aprile 2014

getrude«La filosofia è semplice – dice con un sorriso che cattura l’attenzione – Una persona è persona attraverso le altre persone». Getrude Matshe riassume in poche parole un mondo che le scorre nei gesti, negli occhi, nella storia personale che racconta come se si trattasse di inezia. Un concetto che serve come fondamento spirituale per molte società africane e scandisce il rispetto di base e la comprensione verso gli altri, in una parola Ubuntu. Un termine tanto amato da Nelson Mandela e ormai divenuto di uso comune preso in prestito per definire un sistema operativo open source.

A comunicare entusiasmo, energia, positività, è il modo di muovere le mani di questa donna, il vestito giallo dai disegni caldi, la montagna di capelli e la velocità con cui parla. Sembra dover scuotere perennemente il mondo raccontando la propria storia di ragazzina cresciuta in fretta e ora madre di tre figli. Il suo è stato un lungo vagabondare fra Zimbabwe – è nata in un piccolo villaggio sull’altipiano di quella che un tempo si chiamava Rhodesia – Gran Bretagna, Sud Africa, Stati Uniti. Ora, finalmente, si trova a Wellington, in Nuova Zelanda dove è imprenditrice di successo, ma non ha dimenticato la propria storia. La sua personalità sembra ben definita dal suo nome completo: Getrude Ruwdzano Munyaradzi Bere Matshe. Getrude, in tedesco, vuol dire Lancia di Forza. Gli altri, in shona, la sua lingua madre, si traducono rispettivamente come: Armonia, Consolatrice, Iena, Rocce.

Nel bar dello storico Teatro Quirino a Roma, sul cui palco sono passati grandi come Eduardo De Filippo e Carmelo Bene, Getrude Matshe racconta brandelli di vita per dimostrare come in fondo, se lo si vuole, tutto è possibile e tutto si può realizzare. Basta avere lo spirito e l’energia giusti. «La mia infanzia? Segnata dal fatto che i miei volevano farmi studiare, anche a costo di andare nelle scuole dei bianchi quando ero l’unica nera, volevano per me un buon futuro». Una biografia raccontata in maniera sincopata, con salti temporali e che alternano prosa a poesia, pubblicata in un volume autoprodotto, Nata sul Continente Ubuntu, e tradotto finalmente anche in Italia (nel resto del mondo ha venduto 100 milioni di copie), che avvince e commuove ma, soprattutto, invita a ragionare in maniera radicalmente diversa pensando all’Africa.

«Ora sono una donna considerata di successo – racconta – ma mi è capitato di ritrovarmi con 50 centesimi in una città straniera senza avere alcuna prospettiva e di utilizzarli per chiamare la persona incontrata casualmente un giorno e di cui avevo conservato il numero e un mondo nuovo mi si riapriva davanti». Getrude cancella con un colpo secoli di pregiudizi coloniali con cui in occidente si continua a percepire l’Africa e con cui tanti cittadini africani continuano ancora ad identificarsi. Imprenditrice, intellettuale, informatica, artista, oratrice, attrice, capace di imporsi con la volontà, il coraggio, la determinazione e anche un po’ di sana follia. Scuote sorpresa la testa quando sente che in Italia c’è chi ha letto e apprezza Chinua Achebe, Ngũgĩ wa Thiong’o, Bessie Head, autori dalla storia travagliata e dal forte impegno sociale: «Tu li hai letti – dice accalorandosi – ora ne parli con me e condividiamo una gioia e un sapere. Questo è Ubuntu». Parla dei 3 figli, del marito medico, degli anni in cui essere nera e voler andare ad una scuola di bianchi rappresentava una sfida e della venerazione autentica per Nelson Mandela. «Da giovane consideravo un eroe anche Mugabe (il dittatore dello Zimbabwe, ndr) – dice con tristezza. Era lui che ci aveva portato all’indipendenza ed era lui che ci portava verso un paese senza discriminazioni. Ma poi il potere lo ha rovinato, o forse le giovani mogli, non so. Ora è solo un despota che sta rovinando il nostro grande Paese». Lo sguardo le si vela di tristezza quando parla dell’HIV che sta decimando il continente: «Una guerra silenziosa che distrugge il presente ed il futuro dell’Africa se non viene fermata».

Getrude Matshe da anni sta contribuendo come può, con i suoi libri, col suo lavoro, con la sua parola, ad uscire da questa tragedia: «Io non posso dimenticare da dove vengo. Di bambini morti per l’Aids ne ho visti tanti, ho camminato una volta per due chilometri fra le tombe di persone morte da poco, senza neanche aver realmente cominciato a vivere. Ora che sono a 17.000 chilometri da casa, in un mondo tutto diverso da quello in cui sono nata e dalle tante città in cui ho studiato, lavorato, sorriso e pianto debbo dare al mondo quello che il mondo ha dato a me. Ma penso anche sia ora che noi africani la smettiamo di aspettarci aiuto dall’occidente. Dobbiamo essere artefici del nostro futuro e possiamo farlo, abbiamo competenze, sapere, saggezze. Da noi non si resta da soli, ancora si comprende l’importanza della reciprocità. Ma dobbiamo liberarci anche di tanta abitudine all’assistenzialismo con cui siamo cresciuti e dobbiamo anche ricostruire la nostra storia. Un esempio? Perché diciamo che la sorgente del Nilo, le cascate del lago Vittoria, le ha “scoperte” Livingstone. Intanto non si chiamano così e il lago non si chiama Vittoria ma poi la scoperta della nostra terra è un concetto che riguarda gli europei, non noi. Non si tratta di dire che tutti gli europei la pensano in uno stesso modo e che tutti gli africani in un altro. Ho imparato da sempre che ovunque capita di incontrare persone che si aprono e persone chiuse. Da quelle che sfidavano i pregiudizi quando ero una bambina a scuola e volevano essermi amiche a coloro che dimenticano tanto facilmente la propria origine e la propria identità».

L’incontro con Getrude Matshe è stato organizzato dall’Italian Book Club, un progetto di Federico Conforto, nato pochi mesi fa per interconnettere letterature di vari paesi. «Il mio punto di vista è da italiano conservatore e nazionalista – racconta Conforto presente all’incontro con Matshe – Sono fra quelli che non sopporta di veder denigrato a prescindere il nostro immenso patrimonio storico e culturale. Detto questo, il progetto mi ha permesso di conoscere culture che prima ignoravo. Non ho cambiato opinione ma ora ho anche un punto di vista diverso da cui partire e la cultura è questo, mettersi in gioco e conoscersi, confrontarsi accettando le differenze». Ed è curioso notare come Conforto racconti con una passione “Ubuntu” il progetto in cui è impegnato, che lo porta a far conoscere, utilizzando le potenzialità della rete, Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti e ora anche Zimbabwe e Nuova Zelanda. Sorride Getrude Matshe vedendo l’irruenza con cui parla l’organizzatore. «In fondo anche io utilizzo la rete per far incontrare persone, storie, le cose che produciamo, metto insieme medici e realizzo sceneggiature. Per ora voglio restare in Nuova Zelanda ma ormai ho imparato a viaggiare in continuazione e a cercare di entrare in ogni posto in cui arrivo. Avevo molta voglia di vedere Roma perché mio padre c’era stato da giovane, alla fine degli anni Sessanta. Ho ancora una sua foto in cui sorride davanti al Colosseo e si vede che è felice. Mi ha raccontato che non si vedono i suoi piedi perché sotto le scarpe non aveva la suola. La nostra storia è questa e raccontarla è Ubuntu».

Stefano Galieni