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La salute che ci riguarda

Stefano Galieni - 15 Aprile 2014

Prof. Aldo MorroneDurante una recente tavola rotonda che si è tenuta presso la Regione Lazio, avente come tema la situazione sanitaria, il professor Aldo Morrone, dirigente dell’Azienda Ospedaliera S. Camillo – Forlanini, uno dei complessi più grandi della città, è intervenuto con la giusta dose di provocazione partendo da una differenza, a suo avviso sostanziale, fra salute e sanità: la tutela della prima, in tutti i suoi aspetti evita di dover ricorrere alla seconda. Garantire livelli decenti di vita, di lavoro, di alimentazione implica il dover ricorrere meno al sistema sanitario nazionale. Morrone si occupa da parecchi anni ed a livello altamente professionale, della salute delle persone più vulnerabili, particolarmente dei migranti. Sotto la sua guida l’ospedale S. Gallicano è divenuto un polo di eccellenza per l’assistenza e le cure rivolte soprattutto a chi era privo di documenti.

«Il fenomeno migratorio evidenzia molto bene la differenza fra “sanità” e “salute”. Negli anni passati, in Europa, arrivavano generalmente persone in ottime condizioni, tanto da permetterci di utilizzare il termine “effetto migrante sano”. Le famiglie investivano per far partire i più forti, così da garantirsi il rientro di risorse. Il legame con la salute di un soggetto non era determinato tanto dall’accesso ai servizi sanitari quanto (almeno per l’80%) da un mix di fattori: alimentazione, sistemazione socio-economica e culturale, situazione familiare ecc…. Il libero accesso ai servizi anche per gli irregolari, iniziato con la legge Turco-Napolitano, ha permesso di migliorare la situazione sul fronte maternità, vaccinazioni, salute infantile. I problemi relativi all’accesso alle cure riguardavaNO solo il 20% di chi arrivava. E si trattava quasi sempre di interventi di pronto soccorso. Al riguardo, il nostro sistema è uno dei più “democratici” che esistano: il “ricco Epulone” e “Lazzaro” vengono assistiti alla stessa maniera. Peccato che la stragrande maggioranza di persone che si reca in questi presidi non ne ABBIA effettivamente bisogno, potrebbe curarsi tranquillamente a casa o attraverso i medici di base. La battaglia per garantire agli immigrati il diritto alla salute non solo era eticamente giusta, ma rappresentava un vantaggio economico per il paese. La persona sana o guarita che è venuta per lavorare garantisce sviluppo all’intera collettività».
Perché parla al passato?
«Oggi l’effetto migrante sano si è ridotto a causa di guerre, di fughe, perché è aumentata l’emigrazione per ragioni ambientali, soprattutto si sono fatte sempre più drammatiche e pericolose le condizioni del viaggio, affidato spesso ai trafficanti e ad organizzazioni criminali, e le modalità di arrivo. Non c’è stato alcun tentativo da parte dell’Ue di intervenire in termini di spinta allo sviluppo economico e cooperazione reale con i Paesi maggiormente coinvolti nel fenomeno migratorio. Si è preferito spendere per Frontex. In Italia, inoltre, la questione è sempre stata gestita in termini di ordine pubblico, e dunque sotto il controllo Ministero dell’Interno invece che di quello del Welfare o dello Sviluppo Economico. Non si è voluto accettare che chi arriva possa essere una risorsa economica. Basti pensare che da almeno 10 anni nei paesi che manifestano una forte pressione migratoria sono più le risorse che giungono dalle rimesse dei migranti che quelle provenienti da dalla cooperazione. E le rimesse non servono a far giungere altre persone ma a sostenere chi è rimasto».

Sembra prevalere una scarsa conoscenza dei problemi reali
«Manca una analisi dei paesi di emigrazione. Quello che è stato fatto con l’Albania negli anni Novanta, anche con buoni risultati, dovrebbe e potrebbe essere fatto con gli altri paesi oggi. In Albania, dopo una prima fase emergenziale, vennero messi in campo programmi di sviluppo e di cooperazione che attenuarono l’esigenza di lasciare il Paese. Non dobbiamo continuare con i respingimenti certo, ma affrontando le cause della partenza. Tramite Lampedusa oggi passano poco più del 7% dei profughi ed è la punta di un iceberg in un universo di perdita della dignità umana. Lampedusa è una nemesi dell’antica Ellis Island, anche come conformazione. Ma a noi non ha insegnato niente e il fenomeno è ancora più drammatico ai confini nord orientali. Per non parlare di enclave come Ceuta e Melilla con quelle reti a due passi che fanno sognare l’Europa a tanti giovani africani».
Solo questione di scarsa conoscenza?
«Manca anche ogni forma di programmazione. Si è passati da una linea durissima, i cui elementi basilari erano la salvaguardia dell’ordine costituito, ad una pseudo solidarietà altrettanto fallimentare. Prima hanno provato a convincerci che con la forza era possibile fermare ogni ingresso irregolare, peraltro non costruendo politiche di ingresso legale. È difficile aiutare le persone a restare sane in assenza di lavoro, quando cadono nell’economia sommersa. Penso all’edilizia per quanto riguarda Roma, dove solo recentemente si sono attuati interventi a tutela dei lavoratori in nero. La precarietà ha colpito queste fasce di popolazione in maniera durissima, ci comincia ad essere carenza di alimentazione sana, disagio abitativo. Si muore perché si resta soli e in grave stato di abbandono. Si muore per patologie che potrebbero essere diagnosticate in tempo e risolte. Mi è capitato spesso di avere a che fare con homeless, quando muoiono si dice che è colpa del freddo o del caldo, ma non è vero. Il quadro clinico in cui si riducono fa sì che le intemperie ne causino il decesso, ma alla base c’è la situazione della salute. Io ricordo bene il caso di un paziente che ha perso una gamba per una infezione non diagnosticata in tempo. Ma anche persone che si ammalano gravemente per i morsi delle zanzare. Il degrado è visibile e in aumento. Patologie come il diabete, l’ipertensione arteriosa, le infezioni epatiche, su persone giovani, potrebbero essere curate e si tratta di salvaguardarle anche in un’ottica di investimento. Se sono sane diventano anche utili e non gravano sul sistema sanitario».
Quindi il cuore della questione è il nesso fra povertà e salute?
«Sì. Tanto Più Che per l’Organizzazione Mondiale della Sanità la povertà non va più considerata come una determinante sociale della salute ma come una vera e propria malattia, classificata come tale e indicata con un nome, Z59.5. Ma questo sembra non aver interessato i sistemi sanitari europei, perché curare la povertà non porta guadagni immediati. Non alimenta la vendita di farmaci. Nel 2002 l’Oms ha deciso di aprire un proprio ufficio a Venezia chiamato WHO European Office for Investment for Health and Development evidentemente perché certi problemi di accesso alla salute sono in crescita nella ricca Europa. Una ricerca del 2010 dimostra come, all’interno di alcune città europee, l’aspettativa di vita media possa variare da 1 a 8 anni, da un quartiere all’altro. L’iniquità è un determinante sociale della salute».
Quali sono le responsabilità maggiori in Italia?
«A livello governativo è stato folle separare il welfare dalla sanità. Col risultato che i pronto soccorso come le carceri sono divenute discariche sociali. Soprattutto nelle notti di inverno i reparti di pronto soccorso si riempiono di senza fissa dimora, di tossicodipendenti in crisi di astinenza, di persone non malate ma abbandonate a se stesse. Se questo Paese vanta di essere composto da santi, poeti e navigatori non può dimenticare di avere una storia di emigrazione. Penso anche all’emigrazione interna, nel triangolo industriale Genova, Torino, Milano. Allora c’erano industriali illuminati come Olivetti che garantivano la possibilità ai lavoratori del sud di accogliere le famiglie, mandare i figli a scuola, curarsi. Era un investimento, non un atto di filantropia. Oggi si pretende di avere solo le braccia per il lavoro, con le braccia arriva anche il resto del corpo. E intanto non si è in grado di garantire un minimo di welfare, un supporto sociale per i malati cronici, per chi ha malattie degenerative e soffre di demenza senile. Le famiglie sono costrette a svolgere un lavoro sussidiario o togliendo energie al sistema produttivo o provvedendo privatamente. Questo lavoro lo avrebbe dovuto svolgere lo Stato. Si tratta, di investimenti non di spese. Un Nobel come Paul Krugman sostiene che per uscire dalla crisi dovremmo investire in sanità, istruzione e servizi sociali, l’opposto di quello che si fa in Europa. Da noi ormai lo scontro è fra chi acquista prestazioni e chi non se lo può permettere».
Quindi non più fra italiani e stranieri?
«Esatto, è fra garantiti e non garantiti. Penso ai pensionati a cui erano stati promessi i 1000 euro al mese da tanti anni, ai tanti precari, alle donne che, quando va bene, possono permettersi una gravidanza solo a 45 anni, con tutti i problemi che ne derivano. Ormai si è in una situazione di totale fragilità sociale».
Cosa farebbe lei se avesse poteri e risorse per poter affrontare questa situazione?
«Partirei dall’equità nell’accesso alla salute. E la salute va di pari passo con la dignità, proprio come dice l’Oms non si tratta solo di essere sani ma soggetti che possono realizzare le proprie potenzialità fisiche e psichiche. Se c’è questo si possono vivere con dignità anche le malattie, anche le più gravi. Farei sì che venisse realmente applicato l’Articolo 32 della Costituzione che individua la salute come bene collettivo. Per questo bisogna agire sui fondamentali economici e sociali, aumentare l’istruzione che migliora la prevenzione, lavorare sulle condizioni di genere di cui si tiene spesso poco conto, ad  esempio pensando all’interruzione volontaria di gravidanza. I farmaci che vengono prodotti oggi sono pensati per gli uomini e poi utilizzati anche per donne bambini, ma un bambino non è solo un uomo che pesa di meno, una donna reagisce diversamente ad alcuni farmaci. Poi ci sarebbe tanto da fare sull’abitabilità delle città, sulle condizioni di lavoro, sulla casa. Ovviamente bisognerebbe poi poter disporre di risorse per la tecnologia di secondo e terzo livello, che permetto di intervenire sulle malattie rare. Ma resto ancorato a quelli che sono gli Otto Obiettivi dell’Onu per il Millennio, da realizzare nel 2015. Solo uno di questi si riferisce a malattie specifiche da sradicare, aids, malaria e tbc, principalmente. Gli altri parlano di cause di mortalità e di morbilità e questo è importante. A me piacerebbe riuscire a far capire, non per terrorizzare ma per rendere consapevoli, che oggi nessuno può sentirsi distante e sicuro da questi problemi. Non esiste la possibilità di isolarsi, le malattie non hanno confini e bisogna investire nella salute, anche di chi abita a migliaia di chilometri da casa nostra, e non perché potrebbero arrivare qui, ma perché se migliora la loro salute migliora anche la nostra. La cosa che non permetterei di continuare a fare è quella di continuare a speculare e trarre profitto, sui farmaci e sul diritto a star bene».

Stefano Galieni