Milano

Un carcere chiamato “Corelli”

Daniela Pistillo - 6 Maggio 2014

fotoÈ di alcune settimane fa la notizia della prossima riapertura del Cie di Via Corelli a Milano. Il centro era stato chiuso lo scorso dicembre, a seguito di alcuni incendi che ne avevano pesantemente danneggiato la struttura: col completamento dei lavori di ristrutturazione ed il completamento della gara d’appalto per la gestione, che ha visto vincitrice il raggruppamento temporaneo di impresa costituito dalla Gepsa, società francese di Gdf Suez esperta in gestioni carcerarie, e dall’associazione culturale di Agrigento Acuarinto. L’altra notizia è che accanto al Cie verrà aperto anche un Cara, una struttura dedicata all’accoglienza dei richiedenti asilo.

Nel frattempo a Milano si organizza la mobilitazione contro la riapertura del Cie: per martedì 6 maggio alle 18.30 è previsto un presidio davanti alla Prefettura (Corso Monforte 31) organizzato dal Naga, al quale hanno aderito numerosissime associazioni e forze  politiche, mentre il 25 aprile si è tenuto, invece, davanti alla struttura di Via Corelli, un presidio organizzato dai Giovani Democratici.

Proprio durante il presidio del 25 aprile, grazie alla presenza dei Deputati del Pd Francesco Laforgia e Giuseppe Guerini, è stato possibile per una piccola delegazione composta dai due Onorevoli, da Filippo Sannazzaro in rappresentanza dei Giovani Democratici e dalla sottoscritta in rappresentanza del Forum Immigrazione del Pd di Milano, entrare per effettuare un sopralluogo.

Quello che abbiamo visto è stato in estrema sintesi una struttura carceraria pronta alla riapertura. I detenuti, o, per usare la definizione utilizzata dalla funzionaria della Questura che ci ha fatto da accompagnatore, gli “ospiti” saranno segregati fino a 18 mesi all’interno di bracci dove verranno divisi in base al sesso e all’area geografica di provenienza. Ciascun braccio, da cui i detenuti non possono uscire, è dotato di una decina di camerate, con quattro letti per camera ed un unico locale bagno/doccia comune. Per le attività sociali, hanno a disposizione un cortile esterno di circa 120 mq in cemento, senza nessun tipo di attrezzatura, anche minima, come due porte da calcetto o un canestro e una “stanza benessere” (la definizione è degli agenti presenti) con quattro o cinque tavolini di plastica e tre distributori automatici di bevande chiusi da grate: si fa davvero una notevole fatica a capire cosa differenzi il Cie da un carcere.

Mentre il Cie è praticamente pronto per la riapertura (mancano solo alcuni dettagli burocratici come la definizione del regolamento), il Cara, che sorgerà su un’area adiacente ma separata dal Cie, invece, si trova in una fase molto meno avanzata: il grezzo dell’edificio è stato completato ma mancano ancora tutte le rifiniture e, a quanto riferito dalla funzionaria che ci ha accompagnati, non è stata ancora affidata a nessuno la gestione.

A parte la loro evidente disumanità, resta anche da capire quale sia l’utilità dei Cie: a fronte di costi di gestione molto elevati (secondo l’associazione Lunaria dal 2007 al 2012 i Cie sono costati oltre un miliardo di Euro), secondo Medu nel 2013 su 6.016 migranti trattenuti nei centri ne è stata effettivamente rimpatriata meno della metà (2.749 persone).

È legittimo dunque chiedersi se i “soldi dei contribuenti” non sarebbero meglio utilizzati per realizzare dei veri centri di accoglienza dove sperimentare politiche di inclusione, come suggerito anche dall’Assessore Majorino e come chiesto dall’On. Laforgia in una interrogazione parlamentare sulla riapertura di Corelli depositata la scorsa settimana.

Nell’attesa dell’abolizione della legge Bossi-Fini e della sua sostituzione con una nuova legge quadro sull’immigrazione, un passo nella giusta direzione è rappresentato dall’emendamento presentato dall’On. Guerini al Disegno di legge “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2013 bis” in discussione al Parlamento. L’emendamento ridurrebbe a 6 mesi la durata massima della permanenza nei Cie e prevede che, in caso di persone che abbiano già scontato una detenzione carceraria di 6 o più mesi, la detenzione massima in un Cie possa essere non superiore a 30 giorni.

Non è la soluzione del problema, ma sicuramente rappresenterebbe una inversione di tendenza nell’approccio securitario che ha caratterizzato finora le politiche italiane sull’immigrazione.

Daniela Pistillo