Pianeta colf

Olha racconta

Stefano Galieni - 11 Maggio 2014

«Mi chiamo Olha, ma qui nessuno lo sa pronunciare, per questo ormai mi chiamano tutti Olga, anche le mie amiche connazionali». È quasi mezzogiorno, il Piazzale dei Partigiani nei pressi della Piramide Cestia, a Roma, si riempie, come ogni domenica mattina, di donne e uomini dell’Est Europa, in particolare dell’Ucraina. «Col sole la vostra città diventa bellissima – dice sorridendo Olha – la domenica all’aperto è il momento migliore che abbiamo per parlare, passarci le notizie che arrivano dal nostro paese, per non pensare al lavoro». Ha quasi quaranta anni ben portati, braccia robuste e un sorriso contagioso. Quando le chiedo di raccontarsi resta all’inizio un po’ dubbiosa: «Vuoi i miei documenti?». Ma basta il nome di una comune amica a farle perdere diffidenza. «Sono qui da 11 anni – esordisce – vengo da un paesino a 45 chilometri da Kiev, ho fatto le scuole superiori e poi mi sono laureata in agraria. Pensavo di restare nel mio Paese, di trovare lavoro e di mettere su famiglia. Ero fidanzata e già pensavamo ad un figlio; poi sono cambiate troppe cose e ho scelto di venire in Italia, dove tante mie amiche si erano sistemate. Il mio ragazzo prima mi ha assicurato che mi avrebbe raggiunto. Ora si è sposato e vive in Germania: forse era destino, chissà. Quando sono partita sapevo bene che non avrei trovato un lavoro legato ai miei studi e ho cominciato col fare la cameriera, ma mi trovavo male. I clienti mi molestavano in continuazione ed alcuni miei cosiddetti amici volevano convincermi a fare un altro mestiere con cui avrei guadagnato molto di più, immagina quale. Alcune ragazze che conoscevo hanno seguito quei consigli, una ogni tanto la incontro e cerca di non farsi riconoscere. Anche io mi volto dall’altra parte, abbiamo scelto due vite diverse. Io non mi sono fidata e dopo due anni ho trovato lavoro in una casa. Una signora simpatica, una professoressa che non poteva accudire a suo figlio piccolo. Sono andata a vivere da lei e mi sono trovata benissimo. Lei mi ha dato anche lezioni di italiano, suo marito era un vero gentiluomo e la sera avevo molto tempo libero. Ho cominciato a leggere i vostri scrittori. Mi è tanto piaciuta Elsa Morante, ne hai mai letto? A volte vedevamo la televisione insieme, mi spiegavano le cose che non capivo per la lingua e per un certo tempo mi è sembrato di avere una nuova famiglia. Ma le cose belle non durano. Mi avevano anche messo in regola, mancava solo 1 anno per poter avere la carta da lungo soggiornanti e la notizia mi è arrivata come un sasso sulla testa. Sono dovuta tornare a casa perché mio padre stava morendo. Mi hanno capito e sono partita pensando di restare poco ma la sua agonia è durata due mesi. Dai miei la situazione non era facile. Mia madre era russa, mio padre ucraino e beveva molto, tanto che stava morendo di cirrosi epatica. Non lavorava e si erano dovuti ipotecare pure la casa di famiglia. Ho un fratello minore un po’ sbandato e una sorella piccola che cresceva da sola, e ho dovuto sistemare tutto da sola, fino alla morte di mio padre. Sono ripartita e a Roma ho trovato una brutta sorpresa. La signora aveva dovuto licenziarmi. Mi aveva rimpiazzato con una “rumena” perché ne aveva bisogno. Mi sono ritrovata senza casa e senza lavoro. Mi ha ospitato una amica, ma io intanto avevo solo sei mesi per trovare un altro contratto. Il tempo è passato e mi sono ritrovata a terra. Poi, a pochi isolati dalla casa della mia amica, ho scoperto che cercavano una donna disponibile ad assistere un vecchio di 82 anni. Mi sono presentata e la sua famiglia non mi ha fatto una buona impressione. Mi hanno detto quali erano le condizioni: vitto, alloggio e 800 euro al mese senza contratto. Libera solo la domenica mattina a meno di emergenze. Non dovevo restare incinta e dovevo fare tutto quello che mi veniva chiesto. Ho accettato. Al vecchio mi sono subito affezionata. Lo vedevo solo e spaurito, era incontinente e la cosa lo umiliava, voleva morire e aveva sempre gli occhi tristi. Io lo facevo ridere, gli raccontavo cose finte che immaginavo e lui si illuminava. Diceva che avrebbe voluto avere una figlia come me. Povero signor Antonio. I suoi figli invece non aspettavano altro che vederlo morire per prendersi la sua casa. Il più giovane dei due, un negoziante, più di una volta ha provato a mettermi le mani addosso, io lo allontanavo ma mi vergognavo e temevo di perdere il lavoro. Una mattina alle 5 circa, ho sentito campanello con cui dalla mia stanza il signor Antonio poteva chiamarmi. Mi sono precipitata ed aveva un viso stravolto. Ho chiamato il figlio, ho chiamato l’ambulanza ma non c’è stato nulla da fare. Arresto cardiaco mi hanno detto. Il figlio a cui non ho ceduto voleva dire che era stata colpa mia. Neanche mi hanno pagato il mese. Il tempo di fare le valige e via, fuori. Anche adesso lavoro al nero. Anche adesso faccio la “badante” sempre ad un signore anziano, si chiama Rodolfo. Da lui mi tengo un po’ a distanza perché non voglio affezionarmi come è accaduto col signor Antonio. Ha una figlia sempre impegnata ma che vuole bene al padre, ci siamo capite. Credo che si senta un po’ in colpa perché non ha tempo di stare col padre. Ma forse sono io che mi fido troppo. Guadagno di più, 1.000 euro al mese ma a volte Lorenza, la signora, non ha i soldi per pagarmi e mi chiede di aspettare qualche giorno. Io la capisco ma debbo mandare qualcosa ai miei fratelli e a mia madre. Non so ancora quanto durerà questo lavoro, Rodolfo sta male e se muore anche per me finisce il lavoro. Brutto dirlo ma è così. Non voglio in questo momento tornare al mio paese, io sono mezza russa e mezza ucraina e nella guerra civile non ci voglio finire. Io non odio nessuno, non mi piace Putin e non mi piacciono certi nazisti che non accettano i “mezzosangue” come me, ma di politica capisco poco. Vorrei fare il lavoro per cui ho studiato, da voi, perché ormai mi sento mezza italiana ma sono stufa di pulire il sedere dei vostri anziani. Possibile che debbano soffrire anche questa umiliazione? Eppure sono ottimista, i vostri emigrati ce l’hanno fatta, posso farcela anche io. Resto col sogno di avere una famiglia mia, dei figli anche se forse è tardi e poter avere più tempo per me. Lavoro con una associazione di connazionali perché è importante costruire insieme, ma spesso mi sento sola. Servono queste mattinate d’estate a darmi speranza».

Stefano Galieni
P.S. Questa conversazione è stata possibile anche grazie al fatto che, parlando all’inizio, ho raccontato ad Olha che anche mia madre ha fatto per alcuni anni una vita simile alla sua, 50 anni fa. All’inizio non ci voleva credere, ma poi si è quasi commossa e infervorata.