Il racconto

Foresta multiculturale in un ospedale di Londra

Frederika Randall - 11 Maggio 2014

xcgMqzacAMi sveglio sotto una luce viola ad ora incerta, al ronzio e lo stridio di mille creature, scintille rosse e gialle che si accendono e si spengono, liane verde-trasparenti che pendono dall’alto. Lo spazio è vasto e pullula di vita. Vedo altri esseri umani, e molte cose non umane; sento una grande calma ma anche una nota di urgenza. Dove sono? Il pensiero è lento, intorpidito. Secondo l’orologio sono le quattro, presumabilmente di mattina. L’alba, però, di solito è meno movimentata. Cos’è tutta quest’energia, questo frullare, pulsare? L’americana in me deduce che mi trovo a Grand Central Station, dove tutte le vie del mondo convergono. Ma più che una stazione ferroviaria urbana, sembra una grande foresta, abitata da diverse stirpe di uomini e donne, tutti molto solerti e cortesi.

La grande foresta centrale, avrei scoperto presto, è il reparto di rianimazione di un importante ospedale londinese, dove il giorno prima sono stata ricoverata di urgenza. Una infezione fulminante causata da un batterio minuscolo, ma in numeri sufficienti da far partire la battaglia di Stalingrado. Un organismo molto vivace del genere streptococco, fortunatemente per me anche molto curabile con antibiotici. No, cocco mio: non mi hai preso questa volta!

La grande foresta non assomiglia alle foreste delle nostre fiabe europee: non è buia, cupa, e senza speranze. Non è la selva oscura di Dante, ne “la foresta della notte” dove abita la Tigre perfetta e temibile di William Blake. Non è un luogo di rifugio, come la foresta di Huri del Congo studiata da Colin Turnbull negli anni cinquanta, quando gli invisibili Mbuti cacciavano in pace, gli unici a voler abitare in quel pezzo di giungla equatoriale. Forse assomiglia di più alla foresta amazzonica dove ancora oggi diversi gruppi di uomini e donne coabitano più o meno pacificamente con migliaia di specie di piante, insetti e animali.  Ma non per sempre: arrivano altri uomini non pacifici per appropriarsi di terre e minerali. La grande foresta non esiste dove non è difesa.

Mentre rimugino di foreste, vedo nel letto, dall’altra parte, un uomo dalla pelle molto scura che guarda con orrore due guanti da boxe fatti di soffice cotone bianco che porta alle mani. Si è appena svegliato e non si capacita di quel che è successo alle sue mani, ora così bianche e deformate. Più tardi saprò che è appena arrivato dal Ghana, parla bene l’inglese, e non si ricorda com’è finito in rianimazione, giusto come me. È costernato allo scoprire che gli hanno messo i guanti per impedirgli di strappare le liane, i tubi, durante la notte. L’infermiere che gli spiega il motivo è anche lui ghanese, di Accra: so questo fatto perché qualche minuto prima, mentre mi misurava la pressione, abbiamo parlato della sua città natale. 

Nei giorni seguenti, capirò che sono finita in una società molto particolare qui in ospedale a Londra. È un ospedale pubblico, e i pazienti in rianimazione non sono certo arrivati qui per raccomandazione o perché hanno i mezzi per pagare grosse parcelle mediche. Siamo un gruppo misto, per genere, età, etnia e religione. Tra i famigliari venuti a far visita ai pazienti ci sono donne con le teste coperte di hijab, giovani coi capelli rasati punk, uomini con i payot e alti cappelli neri. Ma la società di chi lavora nel reparto è ancor più mista: una vera società meticcia, più che multiculturale. Meticcia perché gli infermieri e i medici che lavorano in questo reparto agiscono e parlano, tutti con i loro accenti, in un’unica lingua: quella di curare i pazienti con notevole rispetto e affetto per chi sta male, seguendo le regole fisse della medicina.

Oggi in Inghilterra si parla molto della riforma del Nhs, il servizio sanitario nazionale, tagliando le spese, argomento familiare a tutti noi europei in un’epoca in cui lo stato sociale è visto solo in termini di costi, e non di benefici. Credo di aver visto alcuni risultati di quella riforma, ad esempio la riduzione nei numeri di infermieri di grado alto (ben-pagati) a favore di una forza lavoro meno qualificata e meno costosa.Una delle conseguenze involontarie di questa strategia, mi pare, è la società meticcia del reparto dove mi sono trovata, dove accanto a poche infermiere mature e spesso inglesi o scozzesi, ci sono giovani infermierie aiuto-infermieri maschi e femmine nati in tutto il mondo – non solo ad Accra, ma anche a Trinidad, Bremen, Basra, Galway, Kerala, Agra, Galizia, Filippine, Costa d’Avorio, Wroclaw.

Incontro la maestosa Nana dalla Giamaica, con un’acconciatura da Nefertiti e una maniera di calma autorità. Oppure c’è l’aiutante Neil, di Manila, che con suo marito è venuto a Roma l’anno scorso per vedere Papa Francesco (“non è contro noi gay”) e per gustare l’espresso, quello vero. Bintou, musulmana di Abidjan, ha i capelli coperti di un velo e una voce così dolce che mi sento pronta di andare in paradiso subito, se necessario. Mi spiega che il suo nome vuol dire “figlia di” in arabo, e vorrebbe, forse, scacciare dallo slang inglese quella brutta parola bint – donna facile – adottata dai soldati britannici in Egitto durante la prima e seconda guerra mondiale.

Ma l’infermiere più dolce si chiama Hemant: alto, bello, muscoloso, un orecchino d’oro, proveniente dallo stato di Uttar Pradesh in India. A casa sua ha la qualifica di infermiere; a Londra è ancora aiuto in attesa di passare l’esame di stato. A 18 anni voleva fare lo stilista, mentre per gli uomini della sua famiglia la scelta era rigorosamente tra il medico e l’ingegnere. Una cugina a Londra gli ha consigliato di studiare infermieristica, e poi di trasferirsi in Inghilterra. Stadtluft macht frei era un detto tedesco del medioevo. L’aria della città rende liberi. È chiaro che Hemant, a Londra, è un uomo libero, e felice.

Dopo qualche giorno, mi rendo conto che la “società meticcia” che trovo in rianimazione (che mi sembra un modello auspicabile non solo per un ospedale, ma per l’Italia e l’Europa intera) è prodotta da condizioni particolari. Tutti stanno lavorando per un obiettivo non cinico – la salute – seguendo regole sicure di comportamento. Avere delle regole e un punto d’arrivo in cui tutti possono credere: due cose che aiutano la convivenza.

Fosse che, proprio ora che la globalizzazione del capitale sembra portare solo sciagure, sarà la globalizzazione delle persone a salvarci?

Frederika Randall