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Candidature migranti

Stefano Galieni - 21 Maggio 2014

d9e9f-immigrati-bmp-1La questione non è nuova, si ripropone a ogni tornata elettorale. Nelle liste vengono reclutate persone per ragioni che spesso prescindono dalle loro capacità politiche e/o dai meriti. Alcune sono messe in condizione di essere elette, altre servono solo come elementi “decorativi”, per acquisire consensi o suscitare clamore. È una delle tante derive della politica-spettacolo e riguarda ormai anche cittadini di origine immigrata. A questo giro, li troviamo in molte liste: dall’Altra Europa Con Tsipras al Pd, ma anche fra i Green, Fratelli dItalia e Italia dei Valori. Per quanto riguarda le amministrative, ricordiamo i candidati di origine cinese a Prato e la candidata sindaca di Sel a Porcia, provincia di Pordenone, Barbara Abobio, figlia di immigrati ghanesi.

Con quali modalità si delineano queste candidature? E quali sono stati finora i risultati? Ne parliamo con Adel Jabbar, sociologo e docente all’Università di Trieste. «La caccia ai nomi, in fase elettorale, è ormai una pratica comune. Nel passato i partiti avevano, al proprio interno, meccanismi di partecipazione e di coinvolgimento che permettevano di selezionare chi mettere in lista sulla base del merito politico. Ora questo processo è debole o inesistente. Ed è adesso che sulla scena politica arrivano gli immigrati. Molti di coloro che vengono avvicinati dai partiti vengono cooptati senza una effettiva riflessione, in molti casi senza aver prima definito percorsi di condivisione e di coinvolgimento. Una strumentalizzazione? Posto che l’immigrato, rispetto ad altre categorie, ha in generale un potere contrattuale molto debole (quasi un “non potere”) che facilmente rende subalterni, non definirei la cosa in questi termini: si tratta di persone adulte che accettano consapevolmente e in autonomia di essere cooptate e che hanno maturato una propria posizione».

Gli immigrati sono ovviamente molto diversi l’uno dall’altro. Eppure, nel contesto elettorale, tendono ad essere presentati come una categoria monolitica.

«Verissimo. Succede anche a studiosi acuti: immaginano l’immigrato come una categoria generale. Come se la provenienza esterna determinasse di per sé una elaborazione, un progetto socio-politico definito. Invece, ogni persona è portatrice di interessi personali, appartenenze religiose, fa i propri calcoli, propone proprie visioni del mondo, ragiona in base ad affetti e a criteri valoriali differenziati. L’essere immigrato non produce un unico soggetto. E non mi stupisce la varietà fra chi si schiera all’estrema destra o all’estrema sinistra. Intendiamoci, io considero legittimo l’uso delle “categorie” che i partiti fanno per aumentare la propria base di consenso. Credo però che non funzioni, oggi più che mai. Anche in passato, ad esempio, la classe operaia autoctona non ha mai votato in maniera compatta. Le opzioni dipendevano da numerosi fattori: la famiglia, la morale, la religiosità, il contesto territoriale. Io credo che questo tema meriterebbe una riflessione della politica tutta e che non riguarda solo gli immigrati ma anche le modalità di funzionamento dei partiti, diverse da territorio a territorio. Io ho trovato persone di origine straniera che hanno votato in base alla propria visione della sessualità, della morale e della famiglia, qualcuno ragiona in termini di classe, qualcuno perché esprime qui la stessa spinta al nazionalismo che aveva nel paese di provenienza. C’è chi ha votato coloro che hanno garantito sanatorie e permessi di soggiorno. Ci sono coloro che hanno una coscienza politica ma, come per tutti, si tratta di una minoranza».

Di fatto poi i pochi che vengono eletti finiscono ad occuparsi sempre di immigrazione, come se non potessero occuparsi di altro.

«In parte è vero. Ci sono stati però casi importanti, ad esempio a Monfalcone e in un altro paese in Abruzzo dove assessori di origine straniera si sono occupati di lavori pubblici. A Roma un cittadino di origine congolese è stato assessore alla sicurezza. Ci sono in corso tentativi in tal senso. Io credo, desidero anche che ci sia consapevolezza sia fra chi ha una diversa provenienza territoriale che fra tutti gli attori politici, cosa sta accadendo. Quello che è in atto attraverso l’immigrazione non è un semplice cambiamento nella società ma della società. Il paragone che faccio è con il periodo dell’industrializzazione italiana oppure con quello dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta, quando tutto ha cominciato a cambiare in profondità. Una trasformazione totale che richiede un nuovo progetto per il futuro che comprenda diverse sensibilità, diversi punti di vista e diversi strumenti. Il fatto che ci si ricordi dei migranti in periodo elettorale è un passo avanti ma non è sufficiente. Ognuno di noi oggi non ha una unica identità ma mette in atto diverse strategie identitarie per comporre la propria esistenza.

In molti altri Paesi europei: dall’Irlanda alla Germania al Regno Unito, per fare esempi noti, si registra una maggiore partecipazione dei cittadini di provenienza diversa. È il caso di parlare di arretratezza italiana?

«Io parto dal presupposto che l’elezione di cittadini di origine immigrata rappresenta un necessario elemento pedagogico. Necessario ma che va accompagnato ad altro. Negli ultimi anni sono state elette, soprattutto a livello locale, diverse persone. E molti sono anche cresciuti nella vita dei partiti. È però un processo molto lento. Anche nei sindacati sta avvenendo questo, si sono aperti ad un certo attivismo anche se ancora raramente gli immigrati diventano quadri dirigenti. Poi ci sono anche resistenze culturali. La società italiana non offre molti spazi a disposizione. Quando si entra in un luogo pubblico, che non è neutro, si apre una disputa. Chi lo ha sempre posseduto si sente legittimato, chi viene da fuori ha bisogno di riconoscimento. Per i primi c’è un confine da tutelare, per i secondi un argine da attraversare e questo accade sia nel macro che nel micro. Le attività di ogni tipo risentono di questo contenzioso e occorre una grande lucidità per mediare fra chi vuole mantenere egemonia e chi chiede riconoscimento».

Ma si tratta unicamente di responsabilità della società ospitante?

«No. Dipende a mio avvviso anche dalla dinamicità interna al mondo dell’immigrazione. Ancora fra i cittadini immigrati prevale un ordine di priorità molto utilitaristico. Ci vorrà tempo per sganciarsi da una gerarchia legata alla posizione materiale del progetto migratorio. Prima di potersi impegnare in politica, come del resto trovare spazio nella cultura, si è ancorati alla necessità di dover lavorare, produrre reddito, magari garantire ai propri figli un futuro migliore. Ma questo accade in ampi settori della società italiana.»

Anche partiti apertamente ostili, all’immigrazione come la Lega Nord, sembrano volere cittadini non autoctoni nelle proprie fila. In Lombardia, nel 2013, venne candidato Tony Iwobi, di origine nigeriana, già assessore in un piccolo comune.

«Scelte di questo tipo, apparentemente paradossali e contraddittorie, servono a legittimare i partiti e le loro politiche. D’altra parte è un dato di fatto che nelle file di persone in attesa di firmare ai banchetti dove si chiede di bloccare gli sbarchi di profughi, si incontrano spesso immigrati. Sono convinti che se il flusso si fermasse, le loro chance di superare la crisi aumenterebbero. Un tema che attrae le fasce deboli ormai coinvolte in una guerra a non restare ultimi. Una persona abbiente non ha problemi di questo tipo. Per lui gli stranieri sono solo quelli che fanno lavori di servitù. Nei ceti popolari gli immigrati vivono negli stessi quartieri e spesso si combattono i pochi servizi. Dobbiamo evitare che queste fasce deboli finiscano in mano agli imprenditori della paura. L’associazionismo dovrebbe tornare a presidiare quei luoghi, farli diventare aree di convivenza e costruendo vincoli fra deboli».

I giovani nati o cresciuti in Italia, i cui genitori provengono da altri Paesi, sembrano saper affrontare meglio questo conflitto.

«Lo scarto generazionale può generare un ruolo positivo. I giovani hanno mediamente una competenza linguistica superiore ai genitori, aspettative più forti, conoscono meglio il territorio e desiderano emanciparsi. Una emancipazione che non si ferma ad una valorizzazione della cultura di origine. Quella è molto marginale, non corrisponde a quella reale ma a quella che viene vissuta nel paese ospitante. Rifiutano la gabbia culturalista in cui hanno vissuto i genitori, che il loro destino se lo sono cercato. I bambini e poi i giovani non hanno scelto questo percorso. Reagiscono a volte con frustrazione o rabbia o con la spinta ad una affermazione. Danno speranza. In un periodo depressivo come questo, loro sono espressivi. Non hanno formalmente riconosciuta spesso la cittadinanza, ma di fatto la vivono».

I cittadini di origine straniera eletti in Parlamento o assurti a incarichi di responsabilità politica sono stati accusati, in vari casi, di essere stati cambiati dalle istituzioni. Cosa ne pensa?

«Io credo che anche i luoghi siano fattori di edificazione dell’identità e della persona. Quando ti inserisci in un luogo entri in un ruolo, e utilizzi un linguaggio. Ma questo vale nella vita di tutti i giorni, se si entra in un luogo di culto ci si comporta in una certa maniera, se si parla in diversi contesti si utilizzano anche termini diversi. Le persone che ho conosciuto sono sempre state abbastanza “tranquille” e non hanno modificato il proprio modo di pensare. Poi la logica parlamentare è complessa: si è eletti in un partito e si debbono rispettare le decisioni che questo prende, si cerca far funzionare il meccanismo. Oggi ci sono due parlamentari presenti, anzi tre e non hanno grandi spazi di autonomia, da soli cosa possono modificare? Se si conosce una compagine politica o governativa si accetta un patto che comprende cose vicine e sentite ma anche individualmente meno condivise o a cui si è meno interessati. Ci sono diverse opinioni e diversi desideri che portano sempre ad un compromesso, che bisogna rendere il più possibile dignitoso. Io do un valore nobile a questo termine: il compromesso è una promessa fatta fra due parti che si impegnano a rispettarla. So che non è facile gestire una distanza fra le parti e so anche che spesso, attorno ad alcune figure si producono aspettative irrealizzabili. Ma si tratta di aspettative che non hanno ragion d’essere se si conoscono minimamente i meccanismi parlamentari».

Stefano Galieni