Intervista

Il razzismo di casa nostra

Marika Berizzi - 21 Maggio 2014

moniovadiaMoni Ovadia è uno di quegli uomini di cultura e di spettacolo che non ha mai evitato di prendere posizione di fronte all’emergere di xenofobie  e  razzismi di ogni tipo. Lo si è visto negli anni contrastare le legislazioni vigenti e i risultati che hanno prodotto. Ha denunciato tanto un antisemitismo mai superato nel  pensiero comune quanto gli elementi  a dir poco critici che hanno visto come protagoniste le politiche israeliani contro i palestinesi, si è schierato dalla parte degli ultimi ovunque svolgendo un ruolo spesso abdicato dagli intellettuali più ascoltati. Un militante, insomma, che spesso si è messo al servizio di numerose  cause (anche candidato di bandiera alle elezioni europee), ma che ha provato soprattutto ad utilizzare l’arma della cultura come strumento  di cambiamento. Lo abbiamo raggiunto fra un comizio e l’altro e lo abbiamo intervistato.

Il razzismo in ogni paese ha storie e fenomenologie differenti. Che cosa caratterizza quello italiano?

«È un razzismo di natura molto becera, molto rozza, primitiva, e sostanzialmente basato sui soliti vaniloqui. In parte ha una matrice residuale di tipo fascista e nazifascista, si basa sul presupposto completamente idiota che ci siano razze, cosa che ormai è stata sconfessata da tutti gli studiosi della materia: il razzismo è privo di qualsiasi più remoto fondamento; l’essere umano è uno solo, ha una sola emanazione e tutti noi discendiamo dall’Homo Sapiens Sapiens Africanus (persino i cinesi, che pensavano di essere discendenti da un altro ceppo, da un Habilis diverso, dopo tante ricerche e miliardi spesi, non hanno potuto far altro che confermare la discendenza comune). Il razzismo è destituito di ogni fondamento, si nutre ancora del peggior morbo della storia dell’umanità, del più grande crimine di tutta la storia, che è il colonialismo. Un crimine che non si è arrestato, continua ancora adesso, per esempio in Africa con il land crabbing, il furto di terre (80 milioni di ettari) per fare biocarburante, sottraendole all’economia africana.

Il razzismo nostrano si nutre anche di dicerie quali «vengono a casa nostra e ci rubano il lavoro», «non sono come noi». Poi ci sono quei residui che appartengono ad una vulgata di basso livello, plebeo, che è quello del colore della pelle, che in realtà è solo una caratteristica accessoria dell’essere umano, come la forma degli occhi, il colore dei capelli, ecc… Il razzismo all’italiana è un po’ così, un po’ strapaesano, volgare e stupido, un po’ più pericoloso perché ha ancora dietro la memoria e la vocazione nazifascista, e quelli tendono a trasformare il razzismo in uno strumento di aggressione e di violenza.

Io credo che oggi, a livello planetario, il gesto di Dani Alves, quel calciatore che ha mangiato la banana che gli è stata tirata, ha dato il colpo di grazia a un certo razzismo. Uno sberleffo plenetario che ha distrutto culturalmente quel  pensiero in uno dei luoghi, lo stadio, in cui era divenuto dominante. E poi basta vedere chi è il presidente della più grande potenza del mondo, gli Usa. Se poi si considera che la Cina è la prima potenza economica, e l’India in campo tecnologico ed informatico si sta affermando come una nuova  potenza planetaria, noi cosa faremo? Interromperemo i rapporti culturali ed economici con l’India? Taglieremo fuori un mercato di 1.200.000 persone perché hanno il colore della pelle scura?

Saremo noi europei il secondo e terzo mondo se andiamo avanti così.

Tutti hanno onorato, forse il più grande politico del secondo dopoguerra, un uomo straordinario che ha istruito l’intero mondo sul cammino della non violenza, parlo di Nelson Mandela. Tutti i capi di stato del mondo sono andati (ad eccezione di quello israeliano), tutti hanno reso omaggio al grande Nelson Mandela, un africano che ha fatto scuola di etica politica e di umanità. E poi c’è stato Gandhi…

Ma il razzismo all’italiana è quello da chiacchiera da bar, e purtroppo un residuo che si è nutrito del razzismo violento, perché ha avuto come insegnante il nazifascismo, però fortunatamente è minoritario residuale, per lo meno per il momento».

Attualmente, che cos’è che fomenta questo razzismo e lo nutre?

«È la crisi economica. Da sempre le persone che non hanno una formazione culturale e livelli di conoscenza per avere un rapporto critico con il mondo, se aggrediti da una realtà negativa, reagiscono con pregiudizi: «È colpa dei negri, è colpa degli ebrei, è colpa degli zingari…» è comodo quando stai male dare colpa a qualcun altro, è molto confortante. Naturalmente, ci sono dei politici che ci sguazzano dentro, e va bene a tutti avere un capro espiatorio da offrire per non assumersi le proprie responsabilità; poi ovviamente ci sono anche tra i politici sensibilità diverse, ce ne sono di bravi e ce ne sono di meno bravi.

Prenda il caso dei rom: la forma più grave, più deprecabile, più vile, più squallida di razzismo. I rom sono indifesi, non hanno una nazione che parla per loro. Il rom è sporco, brutto, ladro, ruba i bambini, tutte queste cose… ma quando c’è la partita di calcio, tutti si alzano in piedi ad applaudire Ibrahimović, e viene definito dai nostri telegiornali “lo svedese”; che cos’ha di svedese? Il passaporto! Ibrahimović è un rom serbo.

Se non sei una persona che ha nutrito il proprio spirito di quella concezione universale, integra dell’uomo, di quell’umanesimo laico, civile, o anche cristiano, ebraico… che cosa fai? Vuoi avere un capro espiatorio per sfogare le tua umiliazione, la tua frustrazione. Perché sono poveri; se venissero dei magnati africani a portare dei soldi in Italia gli stenderebbero il tappeto rosso. Basta vedere come fanno con gli sceicchi arabi: con i marocchini sono razzisti, con gli sceicchi no!»

Come lo si combatte?

«Soprattutto con l’informazione, con l’istruzione, con il confronto. Lo si combatte educando, a partire dai bambini più piccoli, che non hanno pregiudizi razzisti; se li hanno è perché li hanno imparati a casa dagli adulti. E poi, per quelli che non sono educabili, per lo meno pro tempore, la punizione deve essere durissima, una pena senza condizionale. Il razzismo dovrebbe essere un’aggravante che triplica la pena. Però questo come estrema ratio, solo dopo aver lanciato vaste campagne di educazione ed informazione».

L’arte e la cultura possono più della politica per combattere tutto questo?

«Decisamente. L’arte e la cultura, abbinati all’istruzione, alla formazione e all’informazione, assolutamente sì. Un ruolo importante potrebbero svolgerlo le televisioni; per esempio, negli Stati Uniti sono convinto che molto abbiano fatto le fiction. Se in una fiction un personaggio positivo, allegro, è africano, asiatico, marocchino, o come nella serie ER il medico che ti salva la vita è ebreo o di colore, affascinate e colto, piano piano la gente si abitua a vederli in quest’ottica. Negli Stati Uniti, che sono un paese multietnico, un melting pot, è normale che in molti film, fiction, il medico sia ebreo o il commissario eroico di colore; il colore della pelle è irrilevante, ma quello che conta è l’animus e la cultura, e le azioni che uno compie. Un uomo colto difficilmente sarà razzista, è un uomo che coltiva la sensibilità per le arti. Soprattutto, le arti possono intervenire in questo campo, come in ogni ambito del sapere umano, per trasfigurare, toccare le emozioni e far provare. È il vantaggio dell’arte rispetto all’informazione più classica o a un saggio scritto per denunciare il razzismo. L’arte non tocca solo la mente, ma anche il cuore, i sentimenti, le emozioni. Quindi se pian piano ti aiuta a costruire le tue emozioni in modo antirazzista, tu rifiuterai il razzismo. Se da bambino hai visto delle favole, dei bei film in cui l’arte mostra la stupidità del razzismo, sarai formato in quel modo non solo attraverso la mente, ma anche le emozioni, la sensibilità estetica, ecc…»

Un’ultima domanda: quali sono i punti deboli dell’antirazzismo italiano?

«Il principale punto debole, per me, è l’eccessiva morbidezza delle argomentazioni. Nei confronti del razzismo bisogna assumere gravità, severità molto forte. Non bisogna essere indulgenti con il razzismo, mai. Bisogna intervenire subito. Ad esempio, le nostre istituzioni lasciano sfilare i naziskin. Questi non sono un pensiero ed una cultura neutra, propagandano la supremazia dell’uomo bianco. Quindi per loro dovrebbe sì essere garantito, come negli Stati Uniti secondo il primo emendamento per cui “a nessuno può essere impedito di parlare prima che lo faccia”, ma alle prime parole di odio razziale, dovrebbero essere fermati e severamente puniti con ammonimento. È un po’ come la corruzione: perché ce n’è tanta in Italia? Perché è conveniente; se non fosse conveniente, ce ne sarebbe molto meno.

Da noi si chiacchiera a Porta a Porta; invece di prendere provvedimenti, si va a parlare in un talk show. C’è troppa indulgenza. Bisogna interdire certi gesti, con dure pene. Poi bisognerebbe dare delle opportunità a queste persone, garantire un percorso di rieducazione per essere reinseriti in modo corretto».

Marika Berizzi