Rosarno d'italia

Contadini vs braccianti

Alessandro Leogrande - 30 Maggio 2014
Archivio Fotografico Luce - Fondo Pastorel, 1923. Contadini che raccolgono il grano

Archivio Fotografico Luce – Fondo Pastorel, 1923. Contadini che raccolgono il grano

Chi sono oggi i contadini, non in Africa o in India, ma qui in Italia e in Europa? È una questione terminologica cruciale, perché è proprio capendo lo slittamento del termine che – credo – sia possibile comprendere appieno lo slittamento dei rapporti di forza nelle nostre campagne.
Più che il lavoro della terra, secondo una vulgata ormai acquisita, il Novecento è stato il secolo che ha ucciso una “civiltà contadina” secolare. In questa accezione, il termine “contadino” è stato a lungo sinonimo del siloniano “cafone”. Indicava cioè, sociologicamente, i contadini poverissimi (anche quando piccolissimi proprietari di un piccolissimo appezzamento lontano magari dieci chilometri dal proprio tugurio) o milioni di braccianti che – soprattutto nei borghi del Sud – non avevano altro che le proprie braccia da vendere a giornata per ottenere un tozzo di pane in acquasale e una prole, spesso immensa, da sfamare. Era un mondo immerso nella fame nera (qualcosa lo si può ancora afferrare ascoltando le canzoni del grande Matteo Salvatore), ma quel mondo era anche in grado di sviluppare una propria cultura ai margini della Storia ufficiale (come comprese Carlo Levi) e un profondo rifiuto, quasi religioso, delle più atroci forme di ingiustizia sociale (come ha sempre saputo lo stesso Ignazio Silone). Il socialismo italiano è nato lì, nelle campagne padane e pugliesi, prima ancora che nelle fabbriche.
Ma oggi, ripeto, cosa spiega il termine “contadino”, non in Africa o India, ma qui da noi? Indica soprattutto i piccoli e medi proprietari terrieri, i piccoli imprenditori della terra, spesso ex cafoni o ex braccianti che per tutta una vita non hanno sognato altro che diventare come i loro padroni. Il fallimento culturale, prima ancora che politico, della riforma agraria viene proprio da questa forma di revanscismo individuale ripetutosi per migliaia di casi, spesso identici tra loro.
Se leggiamo la retorica della resistenza contadina con occhi occidentali, e in particolar modo italiani, tutto cambia. Alle immagini di villaggi rurali del Sud del mondo si sostituisce presto l’ideologia ufficiale delle organizzazioni di categoria, dalla Coldiretti alle più oltranziste Cia e Confagricoltura. Difendono un settore in crisi, abusano della parola “contadino”, ma quello che stanno difendendo è in realtà un sistema di impresa che sfrutta sovente altre braccia e altri corpi: quelle e quelli dei nuovi braccianti stranieri che hanno popolato le nostre campagne, cambiando la loro struttura. Specie al Sud, è stata questa la più radicale trasformazione antropologica degli ultimi vent’anni.
Oggi la raccolta delle arance, dei pomodori o delle angurie non la fanno né contadini di ieri, né i contadini di oggi. La fanno nuovi braccianti, nella quasi totalità non italiani. Non hanno niente in comune con la cosiddetta “civiltà contadina” novecentesca e pre-novecentesca, ma – è questo il dato essenziale – sono sicuramente sull’altra parte della barricata rispetto ai piccoli e grandi agrari che posseggono i terreni su cui lavorano. Dall’altra parte, almeno in gran parte del Sud, ci sono proprio coloro i quali si autodefiniscono contadini (intendendo piccoli proprietari). Per stare sul mercato – almeno questa è la loro implicita giustificazione, ogni qualvolta si raggiungono picchi di crisi – non possono non ricorrere al caporalato.
Il caporalato oggi in Italia (e non solo in Italia) non è un aspetto marginale (secondario, legato a pochi episodi criminali) dell’organizzazione del lavoro nei campi. È la base di quella organizzazione. E non è una forma arcaica: è una forma straordinariamente moderna, globale, “avanzata” di grave sfruttamento lavorativo, di controllo dell’uomo sull’uomo, che in alcuni casi rasenta vere e proprie forme di riduzione in schiavitù. La cronaca degli ultimi anni è piena di fatti del genere, che descrivono un sotto-mondo spesso impermeabile. Per questo oggi non si può parlare di agricoltura senza mettere il caporalato in cima a ogni ordine del giorno, senza prendere in considerazione la vulnerabilità dei nuovi braccianti (vulnerabilità oltremodo accresciuta dalle attuali leggi che regolano l’immigrazione, e non arrestata dalla recente legge che punisce l’intermediazione illegale di manodopera). Tutto il resto sarebbe ipocrita.
Continuando nel nostro excursus terminologico si possono aggiungere altre considerazioni. La scomparsa delle civiltà contadine, per come è stata narrata dal meridionalismo storico, non coincide con la fine della violenza e dello sfruttamento nelle campagne. Essa è sopravvissuta a quella fine, spesso unendo insieme forme del vecchio e del nuovo. La giornata di un bracciante africano o rumeno di oggi è incredibilmente simile a quella di un bracciante pugliese o siciliano di un secolo fa. Stesso sistema di paga, stessi ordini, stesse forme di controllo, stessi alloggi durante le grande raccolte. Stessa fame, stessa sete, stesse paure. Stesse punizioni, per chi si ribella.
(Sono diventato amico di alcuni braccianti africani che due anni fa hanno guidato a Nardò il primo sciopero dei raccoglitori di angurie e pomodoro immigrati contro i loro sfruttatori. È stata una lotta aspra e difficile contro le minacce di morte dei caporali e il muro di gomma, il silenzio assordante di quelle associazioni che intendono difendere i “diritti” dei coltivatori… Una sera abbiamo letto insieme alcune pagine di I raccoglitori di cotone di Traven – il titolo originale è più significativamente Der Wobbly. Il libro parla del Messico ed è stato scritto negli anni venti del secolo scorso. Ma loro vi hanno intravisto il loro mondo e la loro lotta, descritti entrambi nei minimi particolari. Per loro, e per me insieme a loro, le differenze erano davvero minime. E non diversa era, è, la necessità di ragionare su nuove forme di organizzazione del movimento operaio).
Se lo sfruttamento è simile, di contro non c’è più il vecchio blocco agrario di un tempo. E non ci sono neanche solo i grandi proprietari di oggi, la grande industria agroalimentare, per quanto la piccola impresa agricola sia in crisi. Se si studiano i casi di Cerignola, Rosarno, Nardò o Castelvolturno, che costituiscono la vera frontiera agraria del paese, la realtà è completamente diversa. Il “nemico di classe” di quei braccianti è un sistema di impresa agricolo spesso pulviscolare, a sua volta asfissiato dalle logiche dell’agro-industria e dalle aziende di trasformazione. Per far fronte a questa asfissia, quando non sono già strettamente alleate con essa, queste piccole imprese, spesso a conduzione famigliare, ricorrono al caporalato – oggi più feroce che mai, anche quando i caporali sono stranieri che vessano altri stranieri. Contrarre il costo del lavoro è la loro prima strategia “di resistenza”.
Nei fatti oggi si è realizzata una scissione tra la parola “bracciante” e la parola “contadino”. E chi usa solo e soltanto la parola “contadino” e parla di resistenza contadina, in realtà sta negando o minimizzando proprio quel nuovo conflitto. Un conflitto sempre più barbaro e violento: non sono pochi i casi di braccianti spariti nel nulla per il solo fatto di essersi ribellati ai caporali del cui potere si servono i nuovi padroncini. Per questo io diffido della parola “contadino”, quando non accompagnata da opportune specificazioni. Non perché, a mio avviso, sia sinonimo di arretratezza. Non perché io sia un industrialista novecentesco. Ma perché sto (ho deciso di stare) dalla parte dei nuovi braccianti. E dirò di più. Sono anche convinto che le logiche dell’agro-industria possano essere ribaltate da una nuova alleanza tra braccianti e contadini poveri (in fondo, come si diceva, il socialismo delle origini è nato proprio da questo), ma a patto che la variabile indipendente di questa nuova alleanza siano i braccianti, non i contadini. A patto che si parli di lotta strutturale al caporalato, alla schiavitù, al lavoro nero prima che di resistenza contadina, diversificazione colturale, creazione di nuove filiere. In questa direzione, ad esempio, vanno proprio le esperienze nate intorno a Sos Rosarno.
Il dominio dell’uomo sull’uomo è la prima cosa da abbattere. I contadini italiani di oggi non sono solo i piccoli produttori umbri o toscani. Loro ci sono, ma sono una minoranza. Il quadro maggioritario è offerto dalle decine di migliaia di braccianti sfruttati nelle raccolte pesanti. Facciamo l’esempio più clamoroso. L’Italia è il terzo produttore mondiale di pomodoro, da poco è stata superata dalla Cina. Secondo dati Istat, il pomodoro si raccoglie per circa il 40% in Puglia. Tuttavia, secondo un recente rapporto della Flai Cgil, il 90% dell’oro rosso pugliese è raccolto da braccianti che lavorano sotto caporale – spesso in condizioni prossime alla schiavitù – o comunque in nero, anche quando lo sfruttamento appare più soft. Chi produce tutto questo pomodoro? Ci sono anche proprietà di 200-300 ettari, ma la maggior parte ne ha tra i 10 e i 20. Per chi lavorano? Per aziende per lo più collocate nell’agro nocerino-sarnese. Questo è il sistema. E non può essere liquidato in poche righe come in genere fanno in una stramba, singolare, nuova alleanza i dirigenti della Coldiretti, i teorici dello slow food e quelli dell’agricoltura sostenibile. Chi ricorre ai caporali non sono solo poche mele marce. Che altro ci farebbero allora duemila braccianti a Rosarno, in un comune di 16 mila abitanti, o ventimila braccianti stranieri in Capitanata? Questi sono numeri da grande industria…

Su quali basi allora è possibile creare una nuova alleanza, un nuovo movimento? Per caso ho riletto lo statuto della Federterra, scritto a Bologna nel 1901. È un testo straordinario, frutto di un’epoca eccezionale, ma credo che dica molto anche a chi, oggi, voglia gettare nei campi nuovi semi di socialismo.
La Federterra era una struttura federale di lotte, leghe, realtà locali, provinciali, regionali, per nulla centralizzata. Prima di essere stritolata dall’avvento del fascismo, incise non poco sulla ridefinizione dei rapporti di forza nelle campagne. Quando l’organizzazione dovette decidere chi, tra i lavoratori della terra, poteva entrare nei suoi ranghi e chi no, chi poteva iscriversi e chi no, stabilì i paletti in questo modo. Nell’articolo 1 dello statuto si legge che potevano farne parte “i lavoratori di condizione braccianti, giornalieri, disobbligati, obbligati e salariati in genere, sia a giornata che a cottimo” e i “compartecipanti, mezzadri, fittavoli e piccoli proprietari, purché coltivino essi stessi la terra tenuta in compartecipazione, mezzadria, affitto e proprietà e purché vendano una quantità di lavoro proprio maggiore di quella che ne acquistino da altri”.
Purché vendano una quantità di lavoro proprio maggiore di quella che ne acquistino da altri… È questa la chiave di tutto, la cruna dell’ago. Non demonizzare la piccola proprietà, ma accettarla a patto che rispetti queste condizioni morali, prima ancora che socio-economiche.
Poi l’articolo 1 prosegue. Saggiamente vengono incluse nella federazione anche forme di produzione agricola più complesse: “associazioni cooperative di lavoro fra braccianti e giornalieri; di produzione, di acquisto, di vendita e di credito fra compartecipanti, mezzadri, fittavoli e piccoli proprietari, purché le stesse associazioni cooperative tendano alla socializzazione della terra e dei mezzi di produzione e scambio”.
Purché tendano alla socializzazione della terra e dei mezzi di produzione e di scambio… Sembra troppo utopico oggi questo discorso? È passato troppo tempo da quando venne redatto lo statuto della Federterra? Sicuramente sì, ma non è questo il punto. Contro le logiche sempre più illogiche e monopolistiche dell’agroindustria, un nuovo movimento dei lavoratori della terra dovrebbe partire proprio da qui, dai medesimi assunti. 1) Mettere i braccianti al centro dei propri ragionamenti e della propria azione. 2) Creare, a partire da loro, nuove alleanze più ampie. 3) Nel farlo, tenere sempre a mente quei due “purché”.

Alessandro Leogrande

(Articolo già pubblicato su Lo straniero n. 141)