Ritratti

Un militante in movimento

Igiaba Scego - 30 Maggio 2014
Luiz Ruffato, courtesy Rino Bianchi

Luiz Ruffato, courtesy Rino Bianchi

«Vivo in una piccola città». Luiz Ruffato fa dondolare la testa compiaciuto. La mascella si prepara alla battuta che verrà. Aspetta il secondo in più che serve per far assorbire alle menti e ai cuori quella sua frase dal tono così paradossale.
La piccola città…
La gente pensa a qualche luogo oscuro perso nella mappa geografica, un luogo oscuro della nostra mente.
La piccola città…
Luiz Ruffato non ha fretta di rivelarsi. Rispetta i tempi della gag comica e si gode il panorama delle facce curiose intorno a lui. Poi, con un sorriso sornione, scioglie il mistero. «Sao Paulo», dice socchiudendo gli occhi… Sao Paulo che tutto è tranne che piccola.
E se invece avesse ragione lui? Se fosse davvero piccola Sao Paulo? Se fosse davvero una gabbia?
Lui adesso vive lì, ma è nato a Cataguases, nello stato di Minas Gerais, nel 1961.
Figlio di una lavandaia analfabeta e di un pipoqueiro semianalfabeta (un uomo che faceva i pop corn che in Brasile amano mangiare caldi) che si erano spostati dalle rispettive città di origine, Rodeiro e Guidova, per migliorare il futuro dei loro figli. La migrazione, lo spostarsi, è qualcosa di molto presente nella sua opera. I piedi dei suoi personaggi sono sempre frenetici, sempre in movimento, sempre alla ricerca di un futuro che si fa afferrare con difficoltà.«Ho sempre abitato in quartieri operai» dice con il suo accento mineiro contaminato da inflessioni pauliste. Le parole “operaio” e “proletariato”, sono tra quelle che cita più spesso. Ma sarebbe riduttivo presentarlo come il cantore del proletariato. «Sono in un certo senso un militante», dice. «E lo sono nella misura in cui mi sono accorto che nel discorso letterario brasiliano mancava completamente il punto di vista del proletariato. I pochi personaggi presenti erano delle caricature, sub-rappresentate dal punto di vista sociale, linguistico e psicologico. Mi è sembrato il caso di cambiare questo modo di approcciarsi alla storia».

Ma il suo proletariato non è quello che si potrebbe trovare in un romanzo di impostazione marxista socialista. Dopotutto, è il proletariato che ha portato al trionfo del Partito dei Lavoratori (Pt) di Lula, un proletariato ancorato a radici cattoliche, però allo stesso tempo legato a forti pratiche sindacali. Quel che interessava Ruffato è come si sia formato questo proletariato, passando da un’identità rurale al pieno inurbamento a Sao Paulo o Rio. Al tema ha dedicato una serie di romanzi, una pentalogia ancora inedita in Italia, che ha come protagonista una comunità di italiani nel Minas Gerais. È un grande affresco di personaggi e geografie, che abbraccia un ampio arco temporale: dagli anni ’50 fino a Lula. Ma Ruffato non vuole essere un Balzac brasiliano: «La formula per parlare di questo proletariato non può essere il romanzo borghese». Molto meglio un collage di percorsi,  sensazioni, sentimenti. Un catalogo di storie. Un’installazione letteraria. La sua prima opera, d’altronde, è stata definita proprio in questi termini. Come se la scrittura del futuro fosse messa di fronte al problema nuovo dell’impossibilità del racconto.

In Da imposibilidade de narrar Ruffato giustamente si chiede come riproporre il caos postmoderno. Come si fa a narrare Babilonia? «Sou do Brasil» dice nell’incipit di questo suo denso saggio. È quel “sou”, (ossia “sono”), implica diverse cose. Per esempio, appartenere a «una nazione ancorata alla violenza», nata sullo sterminio degli indios, basata sulla schiavitù dei neri africani e sull’orrenda sorte toccata ai migranti poveri che provenivano dall’Europa. Confrontarsi con un meticciato derivato dallo stupro dei padroni bianchi verso le schiave nere, uno stupro mai del tutto analizzato e accettato dalla società.
Quando è stato deciso di fare i mondiali di calcio in Brasile, anche lui inizialmente è stato contento. Ma la contentezza si è persa per strada. Trasformata in delusione. «La crescita del Brasile non ha portato miglioramenti sociali, non si sono fatte le riforme strutturali di cui il paese aveva bisogno e abbiamo perso davvero un’occasione. E abbiamo capito che essere la settima potenza mondiale non cambia nulla dal punto vista dei diritti di cittadinanza».

Nei romanzi di Ruffato, e lui lo sottolinea con una certa veemenza, questo, nei suoi discorsi pubblici, c’è la sfida di riproporre, un’analisi sui concetti di spazio e tempo. Se in una realtà rurale le persone, quindi i personaggi di Ruffato, vivevano in uno spazio amplio e in un tempo successivo, questo cambia inesorabilmente con l’inurbamento. Nel grande agglomerato urbano lo spazio diventa esiguo e il tempo simultaneo e questo naturalmente ha delle conseguenze devastanti sulla vita e sulle emozioni dell’individuo. Lo spazio e il tempo industriali hanno in sé una matrice di disumanizzazione.

Ruffato, lo si vede soprattutto nelle opere che sono state tradotte in Italia dalla Nuova Frontiera, ha al centro della sua narrazione la famiglia, i sentimenti, le relazioni, l’umanità. Ma anche la malinconia del migrante. In Sono stato a Lisbona e ho pensato a te racconta del viaggio di migrazione di un mineiro, nel decennio perduto degli anni ’80. Mentre in Di me ormai neanche ti ricordi parla di una migrazione interna, dal Minas a Sao Paulo con lo sfondo (questa volta più accentuato e narrato) della dittatura brasiliana. È interessante notare come in entrambi i romanzi ci sia una consapevolezza che cresce nei personaggi mano a mano che aumentano la pagina della storia. Si impara viaggiando e tante cose che si davano per scontate alla partenza, di fatto non lo sono più. Per esempio, un mito che Ruffato ha cercato di sfatare è quello di un’unica grande lingua patria portoghese. Infatti, non solo la scrittura di Ruffato è densa di regionalismi, ma come accade al protagonista mineiro di Sono stato a Lisbona e ho pensato a te, lui va in Portogallo e lì realizza di parlare una lingua che non è il portoghese. Un po’ come nel film di Walter Salles quando una delle protagoniste dice «Ogni volta mi accorgo qui del mio accento. Del fatto che la mia voce è un’offesa per le loro orecchie».

La malinconia del migrante e tutte le sue piccole speranze. Questo proletariato che cerca di migliorarsi in un paese che fa solo finta di migliorare ci dice molto della globalizzazione selvaggia dei nostri tempi. Depressioni, paure, sogni, vita si mescolano nella prosa sempre in movimento di questo scrittore. Che è poi un riflesso della sua biografia. Nella vita vita, Ruffato ha fatto di tutto: venduto pop corn come il padre e poi il commesso, il tornitore metallurgico, l’operaio in un’industria tessile, il ristoratore, il giornalista. E anche ora che è diventato uno scrittore a tempo pieno non riesce a smettere di muoversi, sperimentare, analizzare.

Igiaba Scego