Rifugiati e dintorni

I protagonisti del centro Astalli

Marika Berizzi - 17 Giugno 2014
La-Manna

Padre Giovanni La Manna

Ci sono tante persone che operano nel completo anonimato, di cui si parla molto poco, ma che svolgono un’attività importante sotto l’aspetto umanitario e sociale. È il mondo dei volontari. Dedicando un po’ del proprio tempo libero a chi si trova in uno stato di bisogno, ricevono in cambio un bene il cui valore non è quantificabile: un sorriso, un’amicizia e la riconoscenza infinita che solo chi sa cosa sia il dolore e la sofferenza può dare. I volontari del centro Astalli si occupano di dare una mano a rifugiati e richiedenti asilo. Senza di loro  il centro Astalli non ci sarebbe. Ad oggi vi sono sedi territoriali attive da nord a sud Italia: Roma, Vicenza, Catania, Palermo, Trento, Napoli, Padova e Milano. Ad esse solo l’anno scorso  hanno avuto accesso 32.600 persone.

Padre Giovanni La Manna, gesuita e presidente del Centro Astalli di Roma (sede italiana del Jesuit Refugee Service) ci fa un quadro generale. «Questo è un momento di particolare difficoltà e noi stiamo facendo il possibile per assicurare un’ospitalità dignitosa ai rifugiati. I servizi sono di prima accoglienza: mensa, servizio docce, centro d’ascolto, ambulatorio medico, scuola d’italiano, e sono aumentati anche i posti in accoglienza. Poi ci sono servizi di seconda accoglienza, quelli cioè che consentono di accompagnare le persone verso l’autonomia: formazione diversificata, ricerca di lavoro e casa. Contemporaneamente, portiamo avanti progetti culturali, perché è bene ricordare che la nostra prima vera povertà è culturale e umana. Segno evidente di questo sono i discorsi che ci sentiamo fare dai nostri politici in merito al fenomeno dei migranti, dei profughi, dei rifugiati: veramente basso, veramente triste».

Chi sono i vostri volontari? «Si tratta di persone che non sono indifferenti e si mettono al servizio di quanti sono in difficoltà: giovani universitari, pensionti, religiosi, scout. Abbiamo un mondo variegato di persone di diverse età, con diverse motivazioni, che quotidianamente prestano servizio nella mensa, alla scuola di italiano, in ambulatorio. Solo a Roma sono 400. e il numero è destinato a crescere».

La visita del papa ha sortito un effetto positivo ed ha contribuito a sensibilizzare maggiormente le persone? «Sì. Lo scorso 10 settembre, a cocnlcusione della visita, Francesco ha  invitato le persone a chiedersi:«Io cosa posso fare vedendo la realtà e non rimanendo indifferente?». Abbiamo un mondo che è veramente vivo. Se penso alla realtà dei volontari dei vari altri nostri centri e conoscendo anche il mondo di tante altre associazioni, c’è da tenere viva la speranza che, andando avanti, insistendo con coraggio, questo mondo possiamo trasformarlo. Perché siamo veramente tanti volontari in Italia, e io credo anche che il nostro paese sia rimasto in piedi perché ci sono persone come i volontari. L’effetto papa è stato incisivo e forte, ed ha fatto registrare un aumento delle persone che si sono avvicinate al mondo del volontariato, ma tanto è dovuto al passaparola: se io vivo una bella esperienza, mi appassiono e poi mi trascino dietro l’amico, in un circolo virtuoso».

Le persone sono migliori di quel che certa politica sembra pensare?

«Sì, le persone sono attente. Quando si favorisce l’incontro con i rifugiati, nelle persone scatta qualcosa. La chiave è l’incontro. Sentendo parlare dei rifugiati, uno può farsi un’idea, ma nel momento in cui si ha l’incontro tutto cambia. Questo è un servizio che noi siamo chiamati a fare: creare quelle opportunità per cui le persone in difficoltà entrino direttamente in contatto con le persone disposte ad aiutare, in una relazione sana che ci faccia sentire nuovamente comunità. Se noi avessimo vissuto il senso di comunità vero e pieno, quanti suicidi in meno ci sarebbero stati in questo tempo di crisi? Favorire l’incontro è fondamentale perché non stai a sentire quello che ti raccontano di seconda mano, ma in prima persona hai davanti Kazim, Meheret… E così tanti pregiudizi, tante paure spariscono, e ti appassioni».

Cosa fanno i volontari con i rifugiati?

«Innanzi tutto, stanno con loro. La dimensione da privilegiare è lo stare, poi arriva il fare, che è altrettanto concreto e necessario, ma nello stare ci si gioca la relazione. Ad esempio, io sto a scuola di italiano dove arrivano i rifugiati per imparare l’italiano, questo è uno stare, ed è un fare successivo, ma lo stare è la prima dimensione. Ci sono delle “seconde accoglienze” dove vi è una semi autonomia, e qui ci sono dei volontari che accompagnano queste persone, ne verificano il progetto, controllano se ci sono state difficoltà, se ci sono dei passi da fare. I volontari sono persone che, per la maggior parte, mettono a disposizione di chi ha bisogno la propria professionalità, ad esempio il farmacista, il medico. Altri, invece, chiedono espressamente, nel tempo in cui svolgono volontariato, di fare qualcosa di diverso dal proprio lavoro… È un mondo, quello del volontariato, che include, difficilmente esclude. Anche persone con problemi trovano risposte alle loro situazioni. L’importante è far sì che il volontariato rimanga una attenzione verso l’altro e non una ricerca di soluzione dei propri problemi».

Voi ricoprite compiti che dovrebbero essere di competenza della politica

«Con l’ipocrisia dei farisei noi riconosciamo il diritto all’asilo politico, però poi lo stato abdica di fronte alle questioni essenziali: garantire ai richiedenti asilo la possibilità di arrivare in sicurezza, e senza dover pagare i trafficanti, proteggerli e sostenerli effettivamente dopo averli dichiarati rifugiati. Ci riempiamo la bocca di proclami, dove diciamo che tutte le misure messe in atto vogliono colpire i trafficanti e quelli che li sfruttano. Se tu vuoi eliminare i trafficanti devi sottrarre loro le persone costrette a pagare. Un’altra menzogna è quella dell’ “aiutiamoli a casa loro”. La Siria ci dimostra quanto si tratti di una menzogna. Non siamo capaci di pacificare, dopo più di tre anni, quel territorio. Ci sono in atto trattati bilaterali di “amicizia” tra i paesi europei ed africani, vincolati al fatto che “io ti finanzio la cooperazione, però tu devi essere disponibile a riprenderti indietro le persone che io non voglio. E li chiamiamo patti di amicizia. Anche il linguaggio ci aiuta a comprendere la schizofrenia implicita dell’essere farisei. E non mi aspetto novità dal mondo politico. Possono cambiare le sigle dei partiti, i colori usati, i nomi delle persone messe in evidenza, ma chi manovra sono sempre le stesse persone.  Abbiamo bisogno di persone nuove. Se noi non scardiniamo questo sistemi, se non cresciamo culturalmente, non cambierà mai nulla. Dobbiamo crescere culturalmente ed umanamente, e questo richiede testimonianza quotidiana, stringere i denti, continuare a sperare e credere, ed andare avanti».

Marika Berizzi