Portogallo

Il passato (coloniale) che non passa

Livia Apa - 17 Giugno 2014

portogalloPoche settimane fa è stato inaugurato a Oporto il World of Descoveries, un Parco tematico-Museo interattivo, che – così recita lo spot pubblicitario – “porta i suoi visitatori in un viaggio fino alle Scoperte”, ossia alla riscoperta dell’America e dei Paesi che hanno fatto parte dell’impero portoghese. Un Parco-Museo (creato per fortuna con denaro privato) concepito per celebrare un passato ricco di fasti e non, va da sé, per stimolare una riflessione critica.

All’inaugurazione erano presenti sia il Primo Ministro sia il Segretario di Stato alla Cultura. La loro foto in una barchetta che li ritrae mentre compiono la visita guidata al parco/museo (e che anche i lettori di Corriere delle Migrazioni possono ammirare) è immediatamente diventata virale sui social network. All’inizio in molti hanno creduto, e forse sperato, che si trattasse di un fotomontaggio, tanta era l’assurdità della scena in cui tra finte cascate, finti elefanti e finti paesaggi esotici, le alte cariche dello Stato attraversavano la memoria (riveduta e corretta)  nazionale. Ma purtroppo lo scatto è autentico e riflette molto bene l’atteggiamento diffuso che il Portogallo mantiene rispetto al proprio passato coloniale, sistematicamente addolcito e rimosso. Si tenta di perpetuare un passato mitico utilizzando la lingua portoghese come una sorta di giacenza di terreno comune che tiene sullo stesso piano colonizzati e coloni. Sparisce nella percezione portoghese, l’iniquità dei rapporti di forza, si rimuove qualsiasi rilettura del passato, dell’espansione marittima e di ciò che ne è conseguito, la tratta degli schiavi. È assente insomma la rilettura di cosa sia realmente stato il colonialismo e il conseguente razzismo che tutt’ora attraversa violentemente l’intero spazio nazionale.

L’idea che il colonialismo portoghese sia stato “cordiale” in quanto avrebbe inventato società meticcie prive di scontri razziali, è una narrativa ancora tristemente presente nel quotidiano del Portogallo. Come da noi in Italia, il portoghese medio dichiara di non essere razzista, in quanto, dopo aver reso possibile la “scoperta” di altre terre, l’espansione marittima avrebbe solo cercato di portare religione e progresso in territori tutto sommato abitati da selvaggi condannati a vivere fuori dalla Storia. L’assoluta ignoranza delle condizioni di vita in cui nelle periferie della capitale e di Oporto i migranti sono costretti a vivere, così come le pratiche non sempre lecite della polizia nei loro riguardi, è come se appartenessero al racconto di un’altra nazione che stenta a trovare spazio e voce nel dibattito politico e culturale nazionale. In un recente programma televisivo sul razzismo, per esempio, la prima ora di trasmissione ha presentato solo esempi conciliatori in cui il razzismo non sembrava far parte della vita sociale portoghese, in quanto l’eccezionalità delle Scoperte – sempre loro – aveva reso possibile un clima di tolleranza e di convivenza pacifica fra culture. Una lettura di questo tipo potrebbe forse spiegare lo scarso tessuto associativo di difesa dei diritti dei migranti, in quanto il legame di continuità storica tra chi accoglie e chi arriva sembra diluirsi ancora oggi in un disturbato quanto falso rapporto di condivisione mnemonica di un passato, in cui l’antico centro dell’impero e le sue periferie continuano a far parte di un immaginario corpo nazionale che supera tuttora i confini stessi della Nazione portoghese.

Ma è l’economia che sta ormai sovvertendo questo sistema. Il fatto che l’Angola, antico gioiello dell’impero, oltre ad aver acquistato parte di alcune importanti imprese e banche portoghesi, in questi anni di profonda crisi economica sia stata scelta da molti portoghesi “naturalmente” come terra di speranza, al punto che davanti all’ambasciata angolana a Lisbona si snodano lunghe file di richiedenti visto, con tempi di attesa di alcuni mesi.
Le caravelle hanno invertito la rotta. Il Portogallo dovrebbe cominciare ad accorgersene.

Livia Apa