Testimonianze/2

Un Cie, noi e voi

Alessandra Ballerini - 16 Luglio 2014

cie-torinoNon sono le grate alte a perdita d’occhio, le pozze d’acqua, le piccole stanze umide e sporche dove i 50 migranti oggi trattenuti devono trascorrere le oziose giornate e le interminabili notti, e neppure i sette letti accatastati in ogni camera. E non sono solo i volti rassegnati e dolenti di questi giovani reclusi (molti dei quali richiedenti asilo ed alcuni con seri problemi di salute) a indignarmi. Questa volta quello che mi ferisce di più è il “Voi”.
Lo ripetono continuamente mentre ci raccontano le loro storie di ordinaria ingiustizia. È un “voi” di distanza e accusa. Ci sono, racchiuse in quel Voi, istituzioni, professioni, ruoli e privilegi.
E ci sto anch’io. Mio malgrado. Io che godo, grazie alla mia immeritata cittadinanza, di diritti essenziali a loro negati, che non sono costretta a scappare da ogni divisa, che posso stringere i miei affetti, che riesco a mangiare, dormire, pregare, curarmi, esistere dignitosamente. «Ci rinchiudete perché non abbiamo il permesso, ma noi il permesso lo vogliamo e lo chiediamo; siete voi che non ce lo date».

Provo vergogna a far parte della cerchia del Voi come ad arraffare una vincita in una partita truccata all’origine. E provo il rimorso di non sapere godere abbastanza dei benefici che derivano da questa casuale e fortunata appartenenza.

«Noi invece – ci raccontano tra le reti, sotto la pioggia – non possiamo vedere i nostri bambini, assistere al parto delle nostre mogli, seppellire i nostri genitori, mandare dei soldi a casa…». Questi Noi stanno rinchiusi per mesi senza reato. Colpevoli solo di viaggio, di sopravvivenza alle avversità, di resistenza alle ingiustizie.
Noi, che oggi siamo Voi, noi che siamo liberi di entrare in visita in questi luoghi di detenzione e di uscirne quando il freddo, la sete, la nausea iniziano a farsi sentire, dopo poche ore torniamo alla macchina e alle nostre attività e ci scambiamo impressioni su quanto visto e ascoltato. Ripetiamo, più che altro, le loro domande. A voce alta, come una preghiera o un’imprecazione.
Perché l’Italia non dà un permesso di soggiorno a chi lavora onestamente? Come si può rinchiudere per 18 mesi, in queste condizioni inumane, persone che chiedono asilo in Europa, impedite a tornare nei loro Paesi di origine
devastati da guerre e costrette a restare qui prigioniere in una terra che non li vuole? Perché i migranti che commettono reati non possono essere identificati in carcere e vengono rinchiusi nel Cie dopo aver scontato già la galera e pagato le loro colpe?
Perché si rinchiude a Torino un migrante con famiglia a Verona e lavoro a Padova che ora ha bisogno di tre avvocati, uno in ogni città: uno per ricorrere contro l’espulsione, uno per opporsi alla convalida del trattenimento e l’altro per impugnare il rifiuto di permesso di soggiorno? Perché costruite questi luoghi di reclusione che costano un patrimonio e servono solo a creare rabbia e dolore?
Già, perché?

L’onorevole Luca Pastorino una risposta ce l’ha e gli scappa dalle labbra: «I Cie vanno chiusi». A volte Noi e Voi condividiamo le stesse domande e auspichiamo le medesime soluzioni.

Resta però ancora, tra Voi e Noi, un’invalicabile rete.

Alessandra Ballerini (Campagna LasciateCIEntrare)