Progetto

Per le vittime della tortura

Arianna Liuti - 16 Luglio 2014

tortureTogheter with VI.TO (Insieme con le Vittime di Tortura) è un progetto triennale che si è chiuso recentemente e che è stato presentato presso la sede Sioi (Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale) a Piazza San Marco a Roma, in occasione della Giornata Internazionale contro la Tortura. Il Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir), ha presentato i dati relativi al progetto che si è occupato di assistenza e cura dei rifugiati che hanno subìto tale crudeltà, un’occasione per informare non solo dei risultati raggiunti ma per fissare nuovi obiettivi. Quella della tortura, come tante altre, è una tematica che non permette negligenza e che necessita – a detta dei tanti relatori intervenuti – di un’analisi più attenta. Le vittime, purtroppo, sono ancora moltissime. Secondo i dati diffusi da Amnesty International, nel 2013, infatti, sono stati praticati trattamenti crudeli, disumani o degradanti in ben 141 Paesi del mondo e si stima, inoltre, che vi sia rimasto coinvolto un rifugiato su tre.
Sono numeri che devono far riflettere. Spesso, infatti, guardiamo alla tortura come qualcosa di estremamente lontano, in linea spazio-temporale: crediamo più volentieri che sia stata praticata “chissà quando” o che sia esercitata solo “chissà dove”. Ecco, quindi, che assume un senso il fatto che vi siano attività di formazione per la prevenzione al problema, attraverso le associazioni Ajpnv (Association Jeunesse pour la Paix et la Non Violence) e il Trauma Centre, operanti rispettivamente in Paesi come il Ciad o il Camerun. Il progetto, oltre che occuparsi si rifugiati che dopo aver subito torture sono giunti in Italia, si è confrontato con una parte di quell’universo complesso di persone che sono rimaste in Paesi limitrofi a quelli in cui hanno subito tali traumi. Si è effettuato un vero e proprio lavoro di comparazione preziosissimo, perché si è potuto avvalere delle competenze che si sono formate nei 3 paesi, seguendo complessivamente circa 600 persone. Al lavoro vero e proprio di sostegno e di riabilitazione, anche psicologica oltre che fisica, che a volte si è tradotto in un percorso di ricostruzione di identità personale, di formazione di esperti per ampliare le competenze, si è realizzata anche una attività di ricerca clinica nei 3 Paesi. Il tema di fondo su cui ci si è voluti incentrare riguarda la percentuale di persone che, sopravvissute a traumi estremi sono cadute nei cosiddetti “disturbi post-traumatici complessi”. La difficoltà innanzitutto a raccontare gli abusi subiti, spesso anche di natura sessuale, presuppone, a detta dei realizzatori del progetto, almeno tre fasi di intervento: da una fase precoce di stabilizzazione e riduzione dei sintomi, all’integrazione delle memorie traumatiche fino a quella che viene definita come integrazione della personalità e sviluppo delle competenze relazionali e metacognitive.

I dati che sono emersi (il rapporto è leggibile sul sito del progetto, mostrano elementi di complessità tali da imporre di dover continuamente rivedere le modalità di approccio verso ogni singola persona. Da un intervento puntuale e improntato alla fusione di professionalità e sensibilità, conoscenza e cura, dipende molto spesso la possibilità che il destino di chi deve superare una vera e propria desertificazione di identità, riesca a ricostruirsi o permanga in una condizione di disagio infinito.
I sopravvissuti alla tortura portano segni durevoli e traumi indelebili. Non si può rimanere silenti di fronte al silenzio, giustificato dalla vergogna, di chi ha subìto violenze. Il Cir, proprio per far fronte ad una richiesta tragicamente in aumento, gestisce dal 1996 programmi di riabilitazione e di integrazione, per mezzo di attività multidisciplinari: i maggiori risultati in termini terapeutici sono stati ottenuti dal laboratorio teatrale, che ha permesso di costruire un ponte tra la frammentazione psichica della vittima e la comunità. «La tortura mira alla distruzione dell’identità personale, legale, economica, politica, culturale e sociale» ha affermato durante la conferenza lo psichiatra-psicoanalista Massimo Germani. La necessità di un intervento preventivo che eviti la cronicizzazione del disturbo post-traumatico, è stato il punto nodale, invece, dell’intervento di Lorenzo Mosca, ricercatore del progetto Togheter with VI.TO: «Dobbiamo fornire assistenza adeguata e tempestiva per scampare ad un problema sanitario enorme a livello nazionale». Certo non sarà la logica emergenziale o i dati allarmistici a risolvere la questione: «Non si governano certi fenomeni con le statistiche – ha commentato, infatti, Roberto Zaccaria, Presidente del Cir – Gli arrivi nel nostro Paese sono fatti di uomini, non di numeri».

Il caso italiano è l’emblema di quanto ancora ci sia da fare. I maltrattamenti non possono essere tollerati e non possono coesistere con i princìpi di democrazia, libertà e difesa dei diritti umani fondamentali, di cui si fa portavoce l’Unione Europea tutta. L’impunità di tali crimini in uno Stato membro, così come la mancata accoglienza a chi quei crimini li ha sofferti in prima persona, rappresenta un fallimento inaccettabile e l’adeguamento della nostra normativa è un dovere che non può essere ulteriormente procrastinato. Soprattutto se ad essere in ballo è la vita di quanti migrano per disperazione.

Ma cosa si intende con la parola “tortura”? Sul piano giuridico, la definizione più esaustiva ci è fornita dall’art. 1 della Convenzione delle Nazioni Unite Contro la Tortura, del 1984 (di cui si è commemorato quest’anno, proprio il 26 giugno, il 30° anniversario e la cui ricorrenza ha dato lo spunto per la giornata di riflessione): il termine «designa qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore e sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni […]», altrimenti non ottenibili.
A tal proposito, è bene sottolineare che l’Italia non ha ancora introdotto il reato relativo nel Codice Penale, come invece previsto dalla Convenzione di cui è firmataria. Le norme attualmente vigenti in materia, inoltre, derivano pressoché esclusivamente dal recepimento delle direttive europee sull’accoglienza. Il nostro art. 13, comma 4 Cost., secondo il quale «è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà», non sembra bastare. Una lacuna legislativa non casuale, in parte derivante probabilmente dal timore di veder perseguiti reati di tale tipologia e ascritti ad alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine, in parte perché tale introduzione metterebbe in seria discussione le condizioni di detenzione in molte carceri italiane o nei Centri di Identificazione e di Espulsione.

Arianna Liuti