Leggere

La sostituzione

Gabriella Grasso - 16 Luglio 2014

COPImpaPROVA_2 copia:ProvaCOPLe regole della competizione letteraria proposta qualche mese fa dalla casa editrice Autodafé consentivano ampio margine di manovra: occorreva scrivere un racconto liberamente ispirato ai Mondiali di calcio 2014 e caratterizzato dall’attenzione alla realtà sociale dell’Italia contemporanea. Interessante, quindi, che tra i 13 inclusi nella raccolta Racconti mondiali (alcuni dei quali firmati da scrittori che hanno partecipato alla selezione delle opere in gara), 5 abbiano affrontato il tema della migrazione e della multiculturalità. Sono La sostituzione di Fernando Coratelli, È una vita che mi preparo di Alessandro Sesto, La terra al tempo dei mondiali di Luigi Tuveri, L’unica cosa reale di Sabrina Minetti e Il quarto invitato di Martina Fragale.
La raccolta, curata da Cristiano Abbadessa, esiste in versione cartacea (10 euro) ed ebook, acquistabile al sito della casa editrice www.autodafe-edizioni.com (euro 8,50). Ringraziando l’editore Autodafé e l’autore, vi presentiamo uno dei racconti che ci sono piaciuti di più: La sostituzione, dello scrittore Fernando Coratelli.

Gabriella Grasso

Quando il mister gli dice di scaldarsi, Abdel salta in piedi dalla panchina e con un sorriso che lo investe dentro comincia il riscaldamento: su e giù all’altezza della bandierina del calcio d’angolo. Poco dopo Lorenzo, un suo compagno di squadra che è in campo, gli arriva vicino per battere un fallo laterale, lo guarda, gli fa un verso per richiamare la sua attenzione, e gli chiede: «Arabo, al posto di chi entri?»
Abdel alza le spalle, mentre salta ancora sul posto. Lorenzo gli mastica in faccia: «Di’ al mister che se entri al posto mio ti spezzo le gambe.»
Quando la palla esce di nuovo dal terreno di gioco, viene richiamata l’attenzione dell’arbitro: è il momento della sostituzione. Il mister dà un’ultima indicazione a Abdel, gli dice di giocare semplice e di saltare l’uomo – visto che è la sua caratteristica principale. Ma non strafare, gli grida mentre fa cenno a uno dei ragazzi del centrocampo di uscire.
Lorenzo caccia fuori un soffio forte, non è lui a lasciare il posto a quell’arabo che da quando ha fatto il provino ed è stato preso in squadra ha rotto i già non facili equilibri dello spogliatoio di una squadra di prima categoria di provincia, una provincia ai confini di un benessere casuale e troglodita.

Quando presidente, general manager e allenatore hanno presentato Abdel alla squadra i mugugni sono stati parecchi. Qualche giorno prima che si aggregasse alla squadra c’era stata una rapina a una villa della zona; avevano picchiato con veemenza padre e figlio, mentre avevano abusato della madre e della figlia. Il paese intero era rimasto scosso, l’episodio aveva avuto un’eco ampia sulla stampa, non solo locale, e la cittadina per quattro giorni aveva avuto fra i piedi televisioni nazionali e satellitari, polizia e carabinieri.
I colpevoli non erano ancora stati trovati, ma la famiglia che aveva subìto rapina e violenza giurava e spergiurava con sicurezza che i cinque uomini che si erano introdotti nella villa erano di certo arabi, forse algerini, o magari marocchini, o chissà tunisini ed egiziani, palestinesi e iracheni – be’, insomma era gente che credeva in quell’altro dio che niente aveva a che spartire con il tranquillo e laborioso paese di quella verde e ridente provincia.
E se ’sto qui, ’sto Abdel fosse uno dei cinque rapinatori?
Era questa la domanda che si erano posti gli altri ragazzi quando era stato presentato in squadra. Abdel aveva subito fatto notare che lui era italiano, che l’arabo lo conosceva appena. E aveva fatto quel discorso allo spogliatoio riunito per la sua presentazione con spiccato accento della zona.
Il primo giorno si è presentato agli allenamenti con una maglietta dell’Inter e il secondo con quella della nazionale. «In fin dei conti sembra proprio uno di noi», ha provato un giorno a dire uno dei ragazzi della squadra; poi visti gli sguardi contrariati dei compagni si è affrettato a precisare: «In effetti sì, prega quell’altro dio, sta sempre lì con le mani alzate verso Est.»
A essere sinceri Abdel ne sa poco o niente di religione – prega perché ha imparato a farlo, perché glielo hanno insegnato come si insegna a leggere e scrivere: puri automatismi.

Dopo pochi minuti dal suo ingresso in campo, Abdel recupera un pallone a centrocampo e si lancia a grandi falcate verso l’area. Un difensore avversario gli si fa incontro, lui con una finta di corpo lo supera di slancio, poi mentre gli si fa incontro un secondo giocatore dell’altra squadra vede Lorenzo libero, così gli passa la palla e si smarca per riceverla e chiudere il triangolo. A Lorenzo basta solo un tocco rasoterra per mandare Abdel davanti alla porta spalancata, per metterlo nelle condizioni di segnare quel gol che varrebbe il pareggio di una partita stregata, sbagliata, convulsa.
Ma Lorenzo Abdel proprio non lo vede, non lo considera, fosse per lui lo avrebbe già cacciato di squadra. Già una volta ha tentato di far valere la fascia che porta al braccio sinistro, ma il mister lo ha ripreso e rimproverato, e gli ha fatto una ramanzina sui valori dello sport, sull’integrazione e altre menate del genere.
No. Quella palla non gliela passerà neanche sotto tortura, sta’ a vedere pure che l’algerino fa gol e diventa l’eroe di giornata, piuttosto perdiamo. È questo il pensiero che sfila nella mente di Lorenzo quando carica il tiro verso la porta avversaria. La posizione è defilata, lo specchio di porta a disposizione, da lì, è pressoché nullo e la postura di gamba e corpo è già scoordinata; eppure lui ci prova.
Il tiro seguendo le leggi della fisica finisce alto e laterale, un tiraccio che solleva imprecazioni del pubblico del paese che è andato a vedere la partita e le urla del mister che grida tarantolato «Passala, devi passarla da lì.» I compagni di squadra sanno bene perché Lorenzo non l’ha data, quella palla, a Abdel; qualcuno è anche convinto che il loro capitano abbia ragione, qualcun altro no, ma nessuno si metterebbe contro Lorenzo: in paese fra i ragazzi è un capoclan, una sua parola e nessuna ragazza rivolgerebbe più parola al malcapitato di turno, destinatario di ire e sfottò di Lorenzo.
Per il resto della partita Abdel finisce ai margini, per toccare un pallone deve andare a recuperarselo da sé.
«Spacca lo spogliatoio, anche se non per colpa sua» aveva dovuto ammettere una volta l’allenatore al presidente. «Forse è meglio se a fine stagione» e non aveva concluso il pensiero fin troppo chiaro.
Poco prima del fischio finale Abdel si smarca, si lancia nello spazio mentre si sviluppa un contropiede da manuale. A portare palla è Gianluca, un interno di centrocampo che macina chilometri. Gianluca avanza, vede Abdel, pensa di dargli palla, ma poco prima di indirizzare il passaggio sente Lorenzo che lo chiama, chiama palla e, anche se a differenza di Abdel è marcato, grida come un ossesso. Gianluca a quel punto non ci pensa oltre e dà palla a Lorenzo. Il difensore avversario ha la meglio e l’azione sfuma.
Abdel si gira verso la panchina – lo sguardo sperduto, la salivazione sparita, si lascia andare a un gesto plateale: gira su se stesso e saltella, poi impreca nella lingua dei suoi genitori, di cui conosce solo preghiere e bestemmie.

Nello spogliatoio, a partita finita e persa, Lorenzo afferma che Abdel è anarchico, che non gioca per la squadra, che averlo fatto entrare è stato l’errore principale. I compagni di squadra a testa bassa e senza mai incrociare lo sguardo dell’italoalgerino danno ragione al capitano. Abdel dice qualcosa, si giustifica, cerca il conforto del mister che non arriva.
«Tornatene al tuo Paese» dice all’improvviso Lorenzo.
«Il mio Paese è questo, coglione» risponde a muso duro Abdel.
«Coglione lo dici a tuo fratello» ribatte Lorenzo, che si alza dalla panca e minaccioso si fa incontro.
Il mister si frappone subito tra i due per evitare che arrivino alle mani, mentre la maggior parte dei compagni di squadra finge indifferenza.
«Abdel è italiano» prova ad argomentare l’allenatore.
«Ma quale italiano?» reagisce ancora Lorenzo. «Gli chieda ai Mondiali per chi tiferà. Tifa Algeria ’sto pezzo di merda.»
«Non è vero. Tifo Italia» grida Abdel.
«Ma se l’altra volta hai detto che speri che l’Algeria passi il turno?» irrompe Gianluca a dare manforte al capitano.
«Cazzo c’entra» si giustifica Abdel. «Ho detto che spero che l’Algeria passi il turno, è pur sempre il Paese dei miei, sono legato, certo, ma io tifo Italia.»
«Se ci fosse Italia Algeria tu tiferesti per quegli arabi incivili e sottosviluppati, non lo negare, frocio.» Lorenzo parla roteando una mano in aria a indice alzato.
«Va bene, non ce ne frega niente. Ora basta, se no alla prossima partita vi mando in tribuna» fa la voce grossa il mister.
«Mister, ascolta» Lorenzo parla e guarda l’allenatore in tralice, «lei a me in tribuna non mi ci manda. Facciamo piuttosto che lui va fuori squadra oppure io sbaracco e con me mio padre e la gioielleria, che smettono di fare sponsor e pagare ’sta squadra di mezze calzette e di arabi froci. Chiaro?»
«Ma cosa dici?» ribatte il mister.
«Be’, spero che lei non voglia che l’algerino qui e i suoi parenti vengano a rubare a casa sua e a violentare sua moglie.»
«Che dici, stronzo?» inveisce Abdel. «Io non rubo e non violento nessuno.»
«Prima o poi rubate tutti, voi» fa eco un altro compagno di squadra che si alza dalla panca, afferra l’accappatoio e si avvia verso la doccia.
Rubare – strano verbo, pensa Abdel che con la mente torna a uno degli aneddoti preferiti di suo padre: il «biscotto» con il quale l’Algeria venne eliminata ai Mondiali del 1982. A quei tempi Abdel non era nato, e suo padre ragazzo non aveva ancora salpato il Mediterraneo per trovare fortuna in Italia.
Il 1982 era anno di Spagna, una Spagna postfranchista che faceva fatica a trovare la quadratura di una modernità europea che fosse dignitosa. Un anno prima c’era stato persino un tentato golpe, un golpe ridicolo quanto disperato del colonnello Antonio Tejero. In un Paese affaticato e caldo all’inverosimile si svolsero i Campionati mondiali di calcio. Per la prima volta le squadre al torneo sarebbero state ventiquattro, e per la prima volta si aveva la presenza di ben due squadre africane: il Camerun e, appunto, l’Algeria. Il sorteggio le volle entrambe in gironi di ferro. Il Camerun se la sarebbe vista contro la forte Polonia di Boniek e Lato e l’Italia di Pablito Rossi che poi avrebbe poi vinto quel Mondiale. L’Algeria invece finì con Cile, Austria e Germania Ovest. Eh sì, a quei tempi di Germanie ce n’erano ancora due.
Mai le squadre africane avevano superato il primo turno, mai le squadre africane avevano vinto una partita ai Mondiali. Beh, l’Algeria riuscì nella seconda impresa ben due volte. Sconfisse due a uno i tedeschi con un gol di Madjer, che poi sarebbe diventato famoso per il gol di tacco nel 1987 con la maglia del Porto in finale di Coppa Campioni contro il Bayern Monaco (davanti ai tedeschi Madjer si esaltava). Poi l’Algeria vinse pure la terza partita del girone battendo tre a due il Cile, e vinceva addirittura tre a zero – e se non fosse stato per il disastro del finale in cui prese due gol, forse avrebbe passato il turno, riuscendo così anche nella storica impresa: la prima africana al turno successivo. E invece no, la sconfitta per due a zero rimediata nella seconda gara contro gli austriaci mise gli algerini nella scomoda posizione di dovere tifare Austria nella gara di lingua germanica.
Fu qui che avvenne il biscotto. Con la vittoria per uno a zero dei tedeschi dell’Ovest contro gli austriaci le due squadre di lingua germanica sarebbero passate a braccetto al turno successivo mandando a casa i maghrebini. Il padre di Abdel questa storia gliela ha raccontata mille volte, tutte le volte che Abdel si prepara a una partita e sogna, chissà, un giorno di diventare un grande calciatore e di indossare la maglia dell’Italia.
«Fai bene a sognare di giocare con l’Italia» gli sottolinea suo padre, e Abdel si chiede sempre se lo pensi davvero o se sia solo una provocazione. «A giocare con l’Algeria non vinceresti mai un Mondiale, perché non lo permetterebbero, come nel 1982.»
E da lì riparte la tiritera sul gol di Hrubesch al decimo minuto del primo tempo con la conseguente estenuante e vomitevole melina di ottanta minuti, con cui Austria e Germania Ovest eliminarono i biancoverdi del Maghreb. Lo chiamarono il Patto di non belligeranza di Gijón.
Oggi, in quello spogliatoio, fra gli sguardi di Lorenzo, del mister, degli altri compagni di squadra, Abdel si domanda se non ci sia un nuovo patto di non belligeranza che escluda lui.

Nelle partite successive, infatti, Abdel non troverà più spazio. Si incupirà, resterà in cantiere a dare una mano a suo padre e suo fratello. Il sogno di una vita da campione sui campi di calcio di tutta Italia si impasterà con la malta.
L’estate che verrà, Abdel seguirà il Mondiale con pochi amici, con vituperata foga tiferà Algeria e sognerà di vedere l’Italia dei sessanta milioni di mister affondare sotto i colpi magari del Costarica, o qualcosa che possa fare vergognare quello strafottente di Lorenzo e dei suoi amici.
Nel frattempo, pare che la polizia rintraccerà e arresterà i colpevoli di quella sanguinosa e terribile rapina di alcuni mesi prima. Erano tutti italiani – disagiati, così li hanno definiti i media.

Fernando Coratelli