Anniversari

Casal di Principe, 25 anni dopo

Stefano Galieni - 7 Agosto 2014

jerry«Quando trovo il tempo per pranzare? Quando non telefonano i giornalisti rompiscatole che mi cercano». Renato Natale si lascia andare alla battuta a cui segue una sonora e calorosa risata. Ma è una frase in cui emerge la complessità di una sua giornata: «Alle 7.30 sono all’ambulatorio medico, dove resto almeno fino alle 11.30, poi vado al Comune e poi dipende dalle incombenze. Riunioni con le associazioni, emergenze, impegni in ufficio o problemi con i pazienti… Devo dire che di tempo per annoiarmi me ne resta poco». Renato Natale è un medico e, dal 10 giugno scorso è tornato a essere, a distanza di 20 anni, sindaco di Casal di Principe, paesone del casertano noto per aver dato il nome ad uno dei più spietati e potenti clan camorristici, quello dei casalesi, e caratterizzato da una marcata presenza migrante. L’ambulatorio è quello dell’Associazione Jerry Masslo, la prima risposta concreta che una parte di società del territorio è riuscita a dare allo sfruttamento dei lavoratori migranti, al razzismo, alla criminalità. E a distanza di un quarto di secolo è importante ripercorrere il filo di una storia in parte dimenticata, che coinvolge  una provincia in cui alla durezza delle condizioni di vita ha fatto riscontro anche una mai troppo apprezzata  capacità di reagire. Villa Literno, Castel Volturno, Casal di Principe, distano fra loro pochi chilometri, si passa dalla campagna coltivata a pomodori ad una costa deturpata dalla speculazione. La presenza di migranti e rifugiati è altissima, per il basso costo delle case e per le opportunità di lavoro che si riescono a trovare. Ma questi 25 anni sono stati anni di  sangue di cui l’omicidio brutale del trentenne Jerry Essan Masslo è solo il tragico inizio.
«Oggi Casal Di Principe è cambiato – riprende il sindaco – sta trovando a fatica, e nonostante la crisi economica che attanaglia molto la nostra provincia, una propria capacità di risollevarsi e di riacquistare dignità e prestigio. Gli abitanti non ci stanno ad essere equiparati a criminali e lo dimostrano con una crescita della coscienza civica. Il nostro esempio è quello di Don Peppino Diana che ha pagato con la vita il proprio impegno contro i poteri criminali e a favore degli ultimi».

25 anni prima
Agosto 1989, già da anni ormai e senza alcuna forma di protezione, le campagne, soprattutto nel Meridione, hanno visto un cambiamento nella manodopera destinata ai lavori di raccolta. Diminuiscono le donne autoctone, aumentano sempre più gli uomini provenienti soprattutto dal continente africano, chi alla ricerca di migliori condizioni di vita, chi in fuga dall’oppressione o da guerre. Jerry Essan Masslo era uno di questi, nato in Sud Africa, quando ancora imperava l’apartheid, era giunto in Italia pensando di poter chiedere asilo politico. La sua domanda era stata respinta a causa di “riserva geografica”, solo chi proveniva dai regimi dell’Est Europa, a quei tempi, ne aveva diritto, per gli altri esisteva un vuoto legislativo che si era interrotto soltanto nel caso specifico della dittatura cilena. Jerry Masslo era in attesa di poter ricevere almeno una protezione temporanea, era divenuto un “caso” per Amnesty International e attendeva di andarsene in Canada. Intanto si guadagnava da vivere raccogliendo pomodori nelle campagne di Villa Literno. La sera del 25 agosto aveva terminato di lavorare; insieme ad altri 27 suoi colleghi stava andando a dormire stanco. Entrarono in 3 armati e a volto coperto, volevano i soldi, una reazione, una colluttazione, 3 colpi di pistola e la vita di Jerry terminò fra quelle baracche. Ci fu una reazione forte nel Paese, politica e popolare, non solo Jerry Masslo ebbe funerali di Stato, ma da allora partì il processo legislativo che sfociò un anno dopo nella cosiddetta Legge Martelli, il primo tentativo di testo organico sull’immigrazione. Il 7 ottobre dello stesso anno a Roma, in 200 mila si scese in piazza contro il razzismo, la prima manifestazione antirazzista in Italia. Nacque in quei giorni e in terra di camorra, grazie ad alcuni medici, l’Associazione Jerry Essan Masslo. Tra gli scopi ideali quello di far crescere la convivenza e combattere lo sfruttamento, poi pragmaticamente si realizzò un ambulatorio medico per garantire assistenza sanitaria a chi viveva e lavorava in condizioni pessime. Renato Natale ne fu fra i fondatori.

Sindaco, ma per poco
Intanto negli anni si affermava sempre più, in quella che un tempo era nota come la Campania Felix, il dominio di un clan spietato, noto nel sistema mediatico soprattutto a causa di colui che ne fu per molto tempo il capo incontrastato, Francesco Schiavone detto Sandokan. Attorno al Paese sorsero ville bunker che divennero rifugio per capi e latitanti; col passare degli anni una terra rinomata soprattutto per la qualità della mozzarella di bufala, divenne discarica di rifiuti tossici, seppelliti senza cura alcuna sotto piloni di strade mai compiute, inquinando le falde acquifere, producendo affari e morte. Non furono in tanti ad alzare la voce in quel periodo in cui anche lo Stato si fece da parte. Renato Natale, si candidò a sindaco di Casal di Principe e divenne primo cittadino per un breve periodo fra il 1993 e il 1994, poi fu costretto alle dimissioni, con le minacce e “impallinato” in giunta dalla sua stessa maggioranza. Ma ad occupare un ruolo centrale in quella sorta di resistenza che caratterizzò il paese, fu allora un sacerdote, Don Peppino Diana che abbracciò tanto la causa dei migranti schiavi quanto quello della lotta alla camorra. Venne ucciso davanti all’altare, il 19 marzo del 1994. Dopo la morte si tentò anche di gettare fango sulla sua figura, facendolo passare per colluso e denigrandone la vita personale. Nulla da fare, Peppino Diana è divenuto, per questa terra e non solo, un simbolo di coerenza fra fede, impegno, coraggio. Ma vennero gli anni bui per tutta la provincia, anni in cui sfruttamento della manodopera immigrata e devastazione ambientale non conobbero sosta. Renato Natale era tornato ad occuparsi del rafforzamento dell’Associazione Jerry Masslo, fornendo sempre maggiori servizi ai lavoratori immigrati. La via Domiziana divenne sempre più area di sfruttamento sessuale di ragazze, paesi come Castel Volturno avevano le “rotonde degli schiavi” dove i caporali passavano per acquistare manodopera a basso costo da impiegare in agricoltura come in edilizia; intanto c’era chi si stabilizzava, nascevano bambini che andavano a scuola, si costituivano o si riformavano nuclei familiari. Insomma, un territorio tanto terribile quanto potenzialmente capace di garantire aspettative, ma che finiva agli onori della cronaca per l’ennesimo omicidio, per un arresto, per una villa sequestrata ad un boss, molto poco per gli affari loschi in cui in tanti erano coinvolti, che tutti conoscevano ma che poco si aveva il coraggio di denunciare. Renato Natale continuò a farlo e con lui altri uomini e donne meno conosciuti, senza grande clamore. Un momento importante venne segnato dalla strage di S. Gennaro, quando nel 2008 6 lavoratori rifugiati ed il gestore di un bar vennero trucidati in un agguato mafioso. Scoppiò una vera e propria rivolta, c’era chi aveva tentato di far passare i morti come coinvolti nelle trame camorristiche; le indagini comprovarono che erano solo lavoratori, colpevoli di trovarsi nel posto e nel momento sbagliato e di avere la pelle più scura. Nel 2011 emerse un piano per uccidere Renato Natale che l’anno successivo si ricandidò sindaco a Casal di Principe, ma a causa dello scioglimento del Comune dovette rinunciare. Due anni di attesa, nel frattempo, dopo aver costruito una lista civica ed essersi posto fuori da ogni partito, è tornato ad essere il primo cittadino.

Si può fare
E se a Castel Volturno si spara ancora – due lavoratori migranti sono stati uccisi nei primi giorni di luglio – il tessuto di resistenza civile, prima che politica, ha cominciato a rinsaldarsi, a produrre frutti. «Ora all’ambulatorio medico siamo aumentati – racconta Natale – e ci sono anche medici che provengono dai paesi di immigrazione e che fino a poco tempo fa lavoravano nei campi. Le attività si sono espanse nonostante i tanti problemi. Alcune donne oggi si guadagnano da vivere vendendo splendidi vestiti tradizionali, cominciano ad affermarsi percorsi di affrancamento dal lavoro schiavistico nei campi. Hanno aperto una boutique a Castel Volturno. Qui a Casal di Principe poi la situazione è molto cambiata. Il potere camorristico è diminuito e aumenta la voglia di partecipare nella vita del Paese. Certo, abbiamo ereditato un bilancio dissestato, centinaia di pratiche da evadere, licenze da concedere, richieste di iniziative da garantire, ma c’è un clima diverso rispetto al passato, almeno nel nostro paese. Oggi i clan camorristici sono meno potenti dal punto di vista organizzativo. Non possiamo abbassare la guardia ma abbiamo maggiori speranze e più strumenti. Le esperienze passate ci sono servite per essere più credibili. Se a pochi chilometri da qui si continua a morire noi vogliamo vivere e dimostrare che è possibile liberarsi dalle catene. Il Comitato Don Peppe Diana, la nostra associazione, Libera e le altre forze sane stanno lavorando insieme, e questo è importante. Ci aspettano, come amministrazione, almeno 18 mesi per provare a risanare, ma intorno c’è entusiasmo e poca voglia di delegare. Il mio ufficio è sempre aperto, chi vuole può venire in Comune a farci partecipe dei propri problemi e insieme possiamo uscirne. La vera inclusione sociale si può realizzare a piccoli passi anche così».
Renato Natale continua a girare per il suo paese in bicicletta, come ha sempre fatto; a sentirlo parlare si incrociano pezzi di storia recente e passata che non riguardano solo Casal di Principe o la Campania. Nel 1982, quando era giovane consigliere comunale, si ritrovò a parlare con Enrico Berlinguer della necessità di combattere la camorra, ricevendo allora l’invito ad andare avanti senza piegare la schiena. Solo 6 anni dopo già iniziava a denunciare lo scempio ecologico che poi avrebbe dato vita alla “Terra dei fuochi”. In fondo è rimasto se stesso con una grande aspirazione: «Da troppo tempo essere “casalesi” è sinonimo di camorristi. Io vorrei vedere il giorno in cui i casalesi saranno semplicemente gli abitanti di Casal di Principe, senza nessuna ombra. Come medico, come cittadino e anche come sindaco, lavoro per questo… e ora cerco di mangiare questa bistecca che nel frattempo si è freddata».

Stefano Galieni