Cie

Ponte Galeria non chiude per ferie

Gabriella Guido - 7 Agosto 2014

labbracuciteSi preannuncia un agosto torrido, al di là delle temperature, anche quest’anno nel Cie di Ponte Galeria. A momenti di tregua si alternano fasi di tensione pesante che nessuno sembra in grado di volere o poter affrontare. Tra il 2 e il 3 agosto si è portata a compimento una fase particolarmente drammatica. Due trattenuti, per 9 giorni, si erano cuciti le labbra per protesta; ad oggi uno di loro è fuggito dopo essere stato portato in ospedale, perché aveva anche ingoiato delle lamette: al secondo avevano garantito cure ed invece è stato tradotto con le labbra cucite in aeroporto per essere rimpatriato, senza neanche veder rispettati i propri diritti alla difesa. Ha rifiutato di farsi scucire le labbra ma poi, una volta saliti i passeggeri, è riuscito creare lo scompiglio necessario ad impedire che il rimpatrio venisse eseguito. Dopo un’altra notte a Ponte Galeria, mentre scriviamo è stato trasferito in Sicilia, nel frattempo ha accettato di porre fine alla dura e non violenta forma di protesta che si era autoinflitto. Il 2 agosto, in 15 nel frattempo avevano provato a fuggire, non è ancora dato sapere se siano stati tutti o meno ripresi.
Queste giornate sono state durissime, sono entrata 4 volte, come campagna LasciateCIEntrare. Con regolare autorizzazione ricevuta dalla Prefettura e della Questura, “convalidata” dal Ministero dell’Interno. Cerco di ricostruire il percorso.
Il 18 luglio eravamo una delegazione di giornalisti e società civile, abbiamo come sempre incontrato e parlato con gli “ospiti”, dentro quelle che sono i loro “alloggi”, gabbie nella gabbia.
Faceva caldo ma il “clima” era tranquillo. Raccoglievamo storie, denunce, appelli, situazioni inaccettabili, storie di ingressi in carcere per 3 grammi di marjuana e da lì l’inizio dell’inferno, dal carcere al Cie, dal Cie ad un “nulla” possibile, storie di lavori a nero perché almeno così si mangia, storie di cittadini stranieri magari sposati o con figli italiani. Alcuni mi fanno vedere il contratto di affitto della loro casa italiana, altri addirittura i versamenti dei contributi, all’INPS italiana, che preleva anche da loro, senza restituirgli nulla in cambio.
Quel giorno abbiamo incontrato, già sdraiato nel suo letto, Mouhamed, nato nel 1986 in Algeria. Entrato in Italia circa tre anni fa dalla Spagna proveniente dal suo paese d’origine, dal quale scappava. Entrato e uscito dai Cie di Trapani e Roma, ora di nuovo a Ponte Galeria dal 3 di luglio. Quel giorno perdeva anche i contatti con sua madre, appena arrivata in Italia dalla Grecia, per raggiungerlo. Si erano incontrati alla moschea del Pigneto (quartiere popolare di Roma), appena il tempo per abbracciarsi. Quel giorno lui viene preso e portato al centro. Lì ha iniziato il “suo” sciopero della fame senza dire niente a nessuno, gli operatori della cooperativa se ne sono accorti perché non ritirava i pasti. Il buono sì, ma quello serve per telefonare, almeno.
Lo abbiamo visto il 18 luglio sdraiato e serio e forte Mouhamed, nel suo letto. Ci disse che stava male. Stava male dentro. Non si può sopportare troppo, soprattutto se sei un ragazzo di neanche 28 anni, se sono anni che scappi cercando un paese che ti accolga, se trovi una giovane donna con la quale condividere una storia, un futuro. Se cerchi forse di proteggere anche tua madre. Se non hai mezzi e strumenti “contro” una legge che ti condanna. Che ti rifiuta, che ti emargina e che ti rende ufficialmente ed istituzionalmente “clandestino”. Se sei uno dei tanti corpi estranei da “espellere”. Come fa un’organismo malato, che attiva le “sue” difese.
Oltre allo sciopero della fame Mouhamed si è cucito la bocca, con due fili di ferro. Ed ha ingoiato qualcosa, forse delle lamette. È stato portato in ospedale, ho visto la cartella clinica, e l’esame radiografico. Ma Mouhmaed ha rifiutato il ricovero e l’intervento chirurgico. Sta troppo male, ma sta male dentro. Non vuole curarsi, perché crede di non avere più nessuna speranza di uscire, di tornare ad essere un uomo libero, libero come tutti gli uomini liberi.
Ora, nella gabbia che contiene la sua vita ed il suo dolore, dorme vicino a Semeh, giovane tunisino, rientrato nel CIE di Ponte Galeria il 19 luglio. Semeh senza documenti, entrato e uscito nei CIE d’Italia per 8 volte. Come molti.
Semeh si è cucito la bocca anche lui, con il filo di ferro. È giovane, ma magro, e lo sciopero della fame, che porta avanti con Mouhamed da una settimana, lo ha reso ancora più magro. Ha il volto scavato, ma i suoi occhi sono densi, e le sue ragioni anche. È arrabbiato. Quando è entrato, ed era Ramadam, è stato costretto a denudarsi, la Guardia di Finanza gli ha detto che era il regolamento, e chissenefrega del rispetto del Ramadam, della religione di un altro…
Lui ha protestato, perché quello era un sopruso. Certo, Previsto dalla legge, ma in fondo sempre un sopruso, per un uomo che sa soprattutto di non aver commesso nessun reato.
Lui continuava a ripeterlo, nel nostro colloquio di ieri sera, duranto un’ora, perché è difficile “parlare” con la bocca cucita. È arrabbiato Semeh perché dice di non averci fatto niente, a noi italiani. Anche lui è passato dal Cie di Trapani, anche lui è riuscito a scappare da lì. È passato anche dai centri di Torino e Milano. Mi chiede, come ci chiediamo tutti, a che serve tutto questo?
Lui vuole farla finita. Non vuole tornare in Tunisia (e forse non è davvero neanche quello il suo paese), vorrebbe starsene tranquillo in Italia, ma a quanto pare non è possibile. Ci chiede non tanto se la Legge è giusta, piuttosto ci chiede perché è “diversa”. Ovvero perché a volte succedono delle cose e a volte altre… si riferisce alle udienze, ai Giudici di Pace, non capisce perché in una città pensano e dicono una cosa, in un’altra una cosa diversa. Ma lui è lui, e la sua storia anche, sempre la stessa.
Qualcuno gli ha passato nei giorni scorsi il mio telefono; mi ha chiamato, mi ha raccontato la sua storia. Gli prometto di andare a trovarlo per parlargli, perché non ha più fiducia in nessuno; ecco perché, anche lui, decide di passare ad un gesto estremo. Chiedo regolarmente l’autorizzazione all’ingresso, mi viene concessa per il giorno 30 luglio. In questa settimana i contatti con la Direttrice del Centro, che prima si occupava e seguiva i migranti sotto il profilo psicologico, sono continui. Anche lei capisce che una mediazione “esterna” può funzionare. Per fargli capire che non è del tutto abbandonato a se stesso. Entro alle 13.30, attendo che i funzionari della Questura svolgano le opportune verifiche. Mi viene detto che, per ragioni di sicurezza ed incolumità personale, non posso accedere nella zona maschile. Sono sola, e quindi, per la Questura, facile “preda” dei circa 80 detenuti uomini che possono compiere anche gesti imprevedibili. Non posso neanche entrare scortata da agenti di polizia, per evitare appunto che si “surriscaldino” gli animi. Alcuni migranti presenti nel corridoio durante la “trattativa” capiscono ed intervengono, dicendo che mi conoscono bene, che non mi farebbero mai del male. Ecco, il primo risultato dell’azione di sicurezza nei miei confronti è che i migranti si sentono presi per dei soggetti pericolosi, pronti a far del male ad una persona che è sempre entrata e che loro ben conoscono.
Offro all’inappuntabile referente della Questura di scrivere e firmare una dichiarazione liberatoria nella quale mi assumo la responsabilità di quello che può accadermi, ma ovviamente non “passa”. I due ragazzi sono deboli e non riescono ad alzarsi dal letto ed uscire dalla stanza. Non incontrarli potrebbe essere un motivo di ulteriore frustrazione e delusione, ma questo concetto, come la mia proposta di assunzione di responsabilità, non “passa”.
Vado via, non trovando nessun altre soluzioni, anticipando che cercherò di tornare con un parlamentare, che grazie alla sua funzione pubblica ha senz’altro più poteri di me. Risponde all’appello Ileana Piazzoni. Andiamo venerdì tardo pomeriggio. Problemi anche oggi di tensione degli “ospiti”. Stanno firmando una petizione per chiedere che le gabbie vengano chiuse più tardi ora che è caldo ed è finito il Ramadam. Avere qualche ora d’aria in più, che magari d’estate è un privilegio che in pochi riescono ad avere, uomini liberi e non. A Gradisca d’Isonzo la rivolta dell’8 agosto scoppiò proprio per questo, per riuscire ad avere le gabbie aperte qualche ora in più la sera.
Ieri sera, venerdì 1 agosto, sempre per ragioni di ordine pubblico, ci viene comunicato che non potremo entrare nel settore maschile. Ci viene chiesto se possiamo tornare il giorno dopo, sabato. Insistiamo che vogliamo incontrarli, che andare via senza averci parlato neanche stavolta potrebbe essere un ulteriore motivo di tensione, anche per i restanti ospiti del centro. Cercano una squadra di poliziotti che possa venire da Roma, ma non ne trovano. Dobbiamo rinunciare. Ma parlo al telefono con Semeh e Mouhamed, che sono solo a qualche metro di distanza da noi, con qualche gabbia di separazione. Sono giorni che ci aspettano, che hanno bisogno di parlare e spiegare la loro storia. Li convinciamo ad uscire loro, gli operatori del centro si adoperano per metterli su una sedia a rotelle per portarli negli uffici. Prima uno, poi l’altro. La burocrazia non può nulla di fronte alla ferrea volontà degli uomini. Grazie a dio.
Facciamo sera, usciamo alle 23.00, dopo aver ascoltato le loro storie; domani sentiremo gli avvocati, scriveremo di loro.
Sabato 2 agosto verso le 3 mi chiama Semeh, che ha ancora le labbra cucite “Dottoressa (così mi continua a chiamare) mi portano via” “Dove Semeh, dove??” mentre penso ad un trasferimento in ospedale o al massimo CIE di Trapani, dove è più operativo il Consolato Tunisino. “A casa, in Tunisia” “Non è possibile Semeh, stai così, hai l’udienza tra due settimane, fammi parlare con qualcuno”… I poliziotti che lo stanno preparando non possono parlare con un’estranea, sebbene Semeh gli abbia detto che sono il suo avvocato. Chiamo la direttrice, che dopo una settimana d’inferno aveva deciso oggi di rimanere un po’ con la sua famiglia. Mi richiama il mediatore dal centro: sì, è vero, lo stanno portando a Fiumicino. Lo hanno portato in infermeria e lui si è rifiutato di farsi scucire la bocca. Questo potrebbe essere un problema per il suo viaggio, il suo viaggio di ritorno, un viaggio che gli viene pagato dallo Stato Italiano, un viaggio che lui non vuole fare, in tutta fretta, un sabato pomeriggio.
Avviso chi posso avvisare, persone che sanno che quando chiami al telefono c’è un’urgenza in corso, persone che rispondono sempre, che non mollano mai.
Come Semeh, che prima di uscire dal centro ha detto ai suoi amici, “tanto torno”.

Gabriella Guido, LasciateCIEntrare