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11 gennaio 1936

Daniele Barbieri - 11 Gennaio 2015

foto89bisOgni persona tende a rimuovere ciò di cui si vergogna. Non è un bene come ci ha insegnato la psicoanalisi. La rimozione collettiva è ancora più pericolosa per evidenti motivi. Fra le molte smemoratezze italiane due si intrecciano con l’atteggiamento razzista (o «imba-razzista» per rubare un geniale neologismo di Kossi Komla-Ebri) verso migranti e profughi. La quasi totale dimenticanza della grande e disperata emigrazione italiana e l’ignoranza – coltivata ad arte – dei crimini del nostro colonialismo in Africa. Ecco una storia fra le tante nell’Etiopia aggredita dal fascismo.
Negli archivi militari italiani di armi chimiche si parla apertamente. Per esempio – ricorda lo storico Giorgio Rochat – di granate caricate ad arsine, «un composto solido e stabile che non poneva problemi di trasporto e al momento dello scoppio si trasformava in vapori letali». Per questo la parola gas è imprecisa: il termine «aggressivi chimici» è più preciso perché comprende anche quelli solidi. Le batterie italiane «da 105/28», per citare un solo caso, «fra l’11 e il 15 gennaio 1936 ne spararono 1.367 sull’Amba Aradam» come, per l’ennesima volta, documenta Rochat in un articolo sul quotidiano Il manifesto del 22 agosto 1995. In quell’occasione i risultati furono «scarsi» – dal punto di vista degli aggressori – «per la dispersione dei vapori su un terreno montuoso e ventilato».
Ma fu soprattutto l’aviazione italiana a massacrare la popolazione etiopica con «le moderne bombe C500 T che contenevano circa 212 chili di iprite». (Queste virgolette e le successive sono riprese dal citato articolo di Giorgio Rochat). «Quando una piccola carica faceva esplodere queste bombe a 200 metri dal suolo, l’iprite (un liquido pesante e instabile) produceva vapori mortali e una pioggia di goccioline corrosive che penetravano attraverso pelle e vestiti producendo lesioni interne gravissime e la morte certa in un’area di alcune centinaia di metri. Il terreno rimaneva intransitabile per alcuni giorni perché imbevuto di iprite che bruciava piedi e scarpe».
L’iprite è uno dei tanti nefasti figli della prima guerra mondiale. Il termine deriva dalla città di Ypres, in Belgio, dove questa sostanza fu usata dall’esercito tedesco il 12 luglio 1917.
Come riassume Rochat, l’Italia inviò «in Africa orientale 3mila bombe C500 T di cui 991 vennero sganciate sul fronte settentrionale fra il 22 dicembre 1935 e il 31 marzo».
Nel 1995, in una famosa polemica che per molti giorni trovò spazio sui media, il giornalista Indro Montanelli accusò di menzogna lo storico Angelo Del Boca per aver parlato in un libro dell’impiego italiano di gas contro la popolazione etiope. Ma la gran parte dei giornalisti si distrasse quando Montanelli si scusò con lo storico dopo aver letto «I gas di Mussolini», un libretto agghiacciante nel quale Del Boca elenca tutte le prove dell’uso italiano di armi vietate. Se i combattenti (ma dovremmo dire gli aggressori perché tali erano) italiani – come Indro Montanelli – non videro l’iprite, una ragione c’è, ricorda Rochat: «è talmente pericolosa che non veniva impiegata sul campo di battaglia per non rischiare di danneggiare le nostre truppe (e per nasconderne gli effetti ai giornalisti). I bombardamenti vennero effettuati sulle retrovie abissine, sui punti di passaggio obbligati, sui villaggi (non sulle città) e sul bestiame».
L’impiego di queste armi era vietato da una convenzione internazionale che l’Italia (io ho un serio problema a scrivere «il nostro Paese» quando era retto dalla dittatura fascista) aveva firmato. Così fu “il Duce” in persona ad autorizzare i comandanti italiani – Pietro Badoglio sul fronte Nord e Rodofo Graziani a Sud – a usare l’iprite (e gli altri aggressivi chimici) come si può constatare dalla sua firma nei documenti raccolti appunto nel libro I gas di Mussolini. Ma proprio nel gennaio 1936 Badoglio usò l’iprite senza neppure chiedere l’autorizzazione – è ancora Rochat a ricordarlo – «per arrestare l’offensiva abissina».
L’aggressione allo Stato sovrano dell’Etiopia (o Abissinia come allora si diceva) era iniziata il 3 ottobre 1935. La disparità di forze era tale che l’Italia (grazie anche alle armi chimiche) vinse in pochi mesi. Il tragicomico duo di Mussolini e Vittorio Emanuele III proclamò il 9 maggio 1936 «l’Impero»: doveva durare «mille anni» ma nel 1941 il popolo etiope era di nuovo libero.
Le reazioni delle democrazie all’aggressione contro l’Etiopia furono più di facciata che di sostanza. Si diffuse ad esempio una certa indignazione in Europa quando nel capodanno 1936 si apprese che le truppe italiane avevano bombardato l’ambulanza della Croce rossa svedese in Etiopia. Minore fu lo sdegno per i morti africani. Eppure «l’Etiopia perse 275 mila uomini nella guerra 1935-36 e 75 mila nella guerriglia successiva, più 18 mila vittime civili dei rastrellamenti, 30 mila massacrati dopo l’attentato a Graziani, 24 mila fucilati dai tribunali italiani e 35 mila morti nei campi di concentramento […] Inoltre 300 mila persone morirono di stenti in seguito alla distruzione dei villaggi e del bestiame»: è ancora Giorgio Rochat. Ma i suoi libri sono ormai introvabili – brutto segno – e sconosciuti ai più; chi però volesse documentarsi può fare riferimento ai molti volumi di Del Boca oppure a Storia del colonialismo italiano, un testo agile scritto da Alessandro Aruffo nel 2003. C’è poi un versante di questa tragedia quasi del tutto inesplorato: ne ha scritto per la prima volta Paolo Borruso una dozzina di anni fa in un libro intitolato L’Africa al confino: la deportazione etiopica in Italia.