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23 gennaio 1930

Daniele Barbieri - 18 Gennaio 2015

derekwalcott-mBuon compleanno ad uno dei più importanti poeti viventi che tante volte è intervenuto sui temi del razzismo e dell’immigrazione.

«I nostri miti sono ignoranza, i loro letteratura». Così si chiude Magia bianca, una breve poesia di Derek Walcott. Gli venne dato nel 1992 il premio Nobel per la letteratura: uno sconquasso al perbenismo letterario (cioè agli stereotipi) che arrivò dai “perduti” Caraibi e che lì, nei piani alti della “cultura” wasp, hanno subito rimosso, o peggio “imbarattolato”.
Le sue isole, l’amore, le migrazioni, i molti mondi visti e immaginati, la poesia intima e l’epica, la condizione umana e la solitudine di ognuno. Non c’è luogo, condizione e sogno o incubo che Derek Walcott non abbia toccato in una lunga vita tutta dedicata a «versi pulsanti e inesorabili» – come ha scritto di lui Iosif Brodskij – «come onde di marea, coagulandosi in un arcipelago di poesie senza il quale la mappa della letteratura assomiglierebbe, di fatto, a una carta da parati».
Qui lo ricordiamo con tre poesie.

Che (*)
In questa foto a grana scura, la cui luce
è disposta col rigore che trovi in Caravaggio,
la salma splende bianca come un cero sull’altare –
la fredda lastra da macello boliviana –
fissala finché la carne cerea si indurisce
il marmo, in bianco ferro venato delle Ande;
è dalla tua paura, cabron, che cresce il suo pallore:
è stramazzata dal suo dubbio, e per il tuo perdono
è arsa in immondizia bruna, lontana dalla neve che inbalsama.

Il canto di Adamo (**)
L’adultera lapidata a morte
viene uccisa ai nostri giorni
dai sussurri, dall’alito
che vela di fanghiglia la sua pelle.
La prima fu Eva,
che tradì Dio col serpente,
per amor di Adamo – il che rende
tutti colpevoli o Eva innocente.
Non è cambiato nulla,
l’uomo canta ancora il canto che cantò Adamo
contro il mondo sottratto dalle vipere,
il canto per Eva
contro la propria dannazione;
lo cantò nella sera del mondo
con le luci che s’accendevano negli occhi
delle pantere nel regno pacifico
e la sua morte che usciva dalle piante,
lo canta, intimorito
dalla gelosia di Dio e al prezzo
della propria morte.
Il canto ascende a Dio, che si asciuga gli occhi:
«Cuore, sei nel mio cuore quando l’uccello si leva.
Cuore, sei nel mio cuore mentre il sole dorme
cuore, sei immobile in me come lo è la rugiada,
piangi dentro di me, quando la pioggia piange»

Migranti (***)
L’onda della marea dei rifugiati, non un semplice passo di oche
selvatiche, gli occhi di carbone nei vagoni merci, le facce
smunte, e in particolare lo sguardo fisso dei bambini
emaciati, gli enormi fardelli che traversano i ponti, gli assali
che cricchiano con un suono di giunture e di ossa, la macchia scura
che passa le frontiere sulle carte geografiche e ne dissolve le forme,
come succede ai corpi dei morti dentro le fosse di calce, o come
fa il pacciame luccicante che si disfa sotto i piedi in autunno
nel fango, mentre il fumo di un cipresso segnala Sachenhausen,
e quelli che non stanno sopra un treno, che non hanno muli o cavalli,
quelli che hanno messo la sedia a dondolo e la macchina per cucire
sul carretto a mano perché da tempo le bestie hanno lasciato
i loro campi al galoppo per tornare alla mitologia del perdono,
alle campane di pietra sui ciottoli della domenica e al cono
della guglia del campanile aranciato che buca le nubi sopra i tigli,
quelli che appoggiano la mano stanca sulla sponda del carro
come sul fianco del mulo, le donne con la faccia di selce
e gli zigomi di vetro, con gli occhi velati di ghiaccio che hanno
il colore degli stagni dove posano le anitre, e per le quali
c’è un solo cielo e una sola stagione nel corso di un anno
ed è quando il corvo come un ombrello rotto sbatte le ali,
si sono tutti ridotti alla comune e incredibile lingua
della memoria, e questa gente che non ha una casa e nemmeno
una provincia parla delle fonti limpide e parla delle mele,
e del suono del latte in estate dentro le zangole piene,
e tu da dove vieni, da quale regione, io conosco
quel lago e anche le locande, la birra che si beve,
e quelle sono le montagne dove riponevo la mia fede,
ma adesso sulla carta, che è simile a un mostro, altro non
si vede che una rotta che ci porta verso il Nulla, anche se sul retro
c’è la veduta di un posto che si chiama la Valle del Perdono,
dove il solo governo è quello dell’albero dei pomi e le forze
schierate dell’esercito sono gli striscioni di orzo
all’interno di umili tenute, e questa è la visione
che a poco a poco si restringe dentro le pupille
di chi muore e di chi si abbandona in un fosso,
rigido e con la fronte che diventa fredda come le pietre
che ci hanno bucato le scarpe e grigia come le nuvole
che, quando il sole si leva, si trasformano subito in cenere
sopra i pioppi e sopra le palme, nell’ingannevole aurora
di questo nuovo secolo che è il vostro.

(*) da Derek Walcott «Isole» [Poesie scelte, 1948-2004] a cura di Matteo Campagnoli, Adelphi 2009.
(*) da «Isole», idem
(*** ) ripresa dalla rete, traduzione di Luigi Sampietro