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Frontiere inattuali

Stefania Ragusa - 18 Gennaio 2015

Subito dopo l’attentato a Charlie Hebdo, varie voci si sono levate per chiedere la revoca di Schengen e quindi un rafforzamento dei controlli alle frontiere. Una richiesta che potrebbe quasi fare tenerezza (per l’ingenuità) se non facesse rabbia (per la malafede).
In Francia, il 7 gennaio, dei francesi hanno colpito altri francesi. E non c’è stato alcun passaggio di confine. La vicenda, proprio per le caratteristiche dei suoi attori, diversissimi per ascendenze, fede, milieu culturale, ma accomunati dalla cittadinanza, evidenzia più che mai l’inattualità delle frontiere e, per essere conseguenziali, anche dello Stato-Nazione come siamo abituati a pensarlo.
A prima vista sembra impossibile parlare di noi stessi o far riferimento a eventi esterni a noi prescindendo dall’elemento nazionalità. Eppure lo Stato-Nazione, fondato sull’omogeneità linguistica e culturale, non è una realtà naturale né particolarmente antica. È nato (e con esso i passaporti e le frontiere come li concepiamo oggi) e si è consolidato, a partire dal 18° secolo, perché in quel contesto, che è quello della Rivoluzione Industriale, rappresentava un modello di organizzazione vantaggioso.
Ma oggi, nell’epoca della tecnologia e della globalizzazione, il quadro è assai differente. La mixitè e il pluralismo etnico e religioso sono elementi ricorrenti e pongono sfide che non possono essere eluse né affrontate sulla base di preferenze ideologiche.
Non è un caso che a occuparsi della questione sia stato recentemente anche il New Scientist, che – come è noto – si occupa di scienze e non di politica. Lo ha fatto con un articolo molto approfondito, firmato da Debora MacKenzie (Imagine there’s no country… n° 2985 del 6 settembre 2014).
Lars-Erik Cederman, dello Swiss Federal Institute of Technology di Zurigo, intervistato da MacKenzie, osserva che i cantoni svizzeri hanno raggiunto la pace non rafforzando le frontiere ma grazie a un’organizzazione politica che riconosceva la loro autonomia e un loro ruolo di rilievo nei processi decisionali. La soluzione non può essere mai rappresentata dall’uniformità etnica o dai muri. Al contrario, sembra passare attraverso i processi di inclusione. Come sostiene Brian Slattery, dell’università York di Toronto, nel medesimo articolo. «Lo Stato dovrebbe essere concepito come un luogo in cui multiple affiliazioni e linguaggi e religioni possano svilupparsi in sicurezza. È il modello che ha adottato la Tanzania e che sembra funzionare ragionevolmente bene». E in Tanzania, lo ricordiamo, ci sono più di 120 gruppi etnici e si parlano oltre cento lingue.
Frontiere inattuali, dunque; modello di stato da ripensare e anche rapporti tra stati da rivedere perché la struttura gerarchica (è la tesi di Ian Goldin, capo della Oxford Marin School all’università di Oxford), quella per intendersi che assegna una preminenza a istituzioni come le Nazioni Unite o la Banca Mondiale, non è adatta ad affrontare i problemi globali del nostro tempo.
Gli esperti interpellati da MacKenzie non offrono soluzioni spicciole (sono scienziati non veggenti) ma indicano una direzione, che sembra però proprio quella ignorata dalla politica attuale e anche dal dibattito mediatico.
C’è qualcuno, però, che va in direzione contraria. Per esempio gli artisti, gli antropologi e i ricercatori che fanno capo al progetto AntiAtlas des Frontières, di cui ci occupiamo nella nostra apertura. AntiAtlas ha come core business proprio la destrutturazione delle frontiere, non a partire dall’antagonismo militante ma dalla tecnologia e dalla ricerca e Francesca Materozzi ne ha parlato con il suo coordinatore Cédric Parizot.

Annamaria Rivera è probabilmente la principale storica del razzismo italiana. È anche un’intellettuale che conosce bene la Francia. L’attacco a Charlie Hebdo l’ha colpita nel profondo (come a tanti della sua generazione, estimatori di Wolinsky, Charb e delle bandes dessinées più sagaci e dissacratorie) e le ha suggerito una riflessione che a tutti noi, in redazione, è piaciuta molto e che desideriamo condividere con i nostri lettori. Restando in tema, Dante Farricella ci racconta come è andata a Modena la marcia organizzata dai giovani musulmani per dire no al terrorismo e anche alla demonizzazione dell’Islam.
Stefano Galieni, questa settimana, tratteggia per noi il profilo di una delle persone più influenti a livello europeo nell’ambito delle migrazioni: Dimitris Avramopoulos, il commissario europeo con delega a Immigrazione e Affari Interni, scelto dal neopresidente della Commissione UE Jean-Claude Juncker, una personalità da tenere d’occhio. In Italia si continua a dare molto peso alle sparate di un Salvini o alle chiusure di un Alfano e si tende a ignorare invece che le decisioni realmente vincolanti vengono prese a Bruxelles.
Amalia Chiovaro, fresca di nomina a consigliera comunale a Vinci, in Toscana, ci parla di Lampedusa vista da Ascanio Celestini durante un soggiorno sull’isola legato a un progetto teatrale. Sergio Bontempelli ci racconta di una legge di iniziativa popolare che potrebbe presto consentire anche al romanès, la lingua dei rom e dei sinti, di ottenere la protezione che la nostra legge assicura agli idiomi delle minoranze. Gabriella Grasso ha intervistato Adriana Lisboa, brasiliana autrice di Hanoi, romanzo su identità, migrazione, multiculturalità e anche sui nuovi rapporti tra Usa e Vietnam. Daniele Barbieri, infine, ci propone una scor-data che corrisponde a un compleanno che speriamo sarà felicissimo: l’ottantaquattresimo di Derek Walcott, uno dei più grandi poeti viventi, uno che si è molto occupato di razzismo e immigrazione.
Buona lettura e buona settimana

Stefania Ragusa
direttore@corrieredellemigrazioni.it