Letture migranti

Hanoi, luogo dell’anima

- 18 Gennaio 2015

hanoiAlex e David si incontrano a Chicago, dove vivono. Nelle vene di lei scorre sangue vietnamita e statunitense. Lui nasce dall’incontro tra geni brasiliani e messicani. Lei ha 22 anni ed è una madre single. A lui, di qualche anno più grande, è appena stato diagnosticato un male incurabile. Il rapporto che si instaura tra di loro avrà, per entrambi, un profondo significato esistenziale. Sono i protagonisti di Hanoi (La Nuova Frontiera, euro 16,50), poetico romanzo della scrittrice brasiliana Adriana Lisboa che dopo Blu Corvino torna ad affrontare argomenti a lei cari come l’identità, la migrazione, la multiculturalità.

Da dove nasce il suo interesse per questi temi?
«A 18 anni mi sono trasferita per un anno a lavorare, come cantante, in Francia. Per la prima volta sono entrata in contatto con un’altra cultura e ho conosciuto persone originarie di vari Paesi. La mia era una situazione privilegiata, ma non per tutti era così: chi proveniva da Paesi arabi, per esempio, doveva affrontare pregiudizi e razzismo. È lì che ho iniziato a interrogarmi su queste tematiche. Poi otto anni fa, a causa del lavoro di mio marito, mi sono trasferita negli Usa. E qui sono entrata in contatto con altre situazione difficili: ho amici e conoscenti che non possiedono i documenti e ho anche lavorato in un centro per rifugiati, a Denver. Così ho continuato a farmi delle domande, che però vanno oltre i concetti di “nazione” e “migrazione” ma riguardano il significato profondo dell’appartenenza a un luogo: quand’è che possiamo dirci a casa?».

La sua personale risposta qual è?
«Mi sento a casa quando sono con le persone che amo. Sono legata a Rio non perché ci sono nata, ma perché ci vive la mia famiglia. E sono a casa negli Usa perché qui ho legami forti. È questo il significato profondo di appartenere a un luogo: avere relazioni affettive importanti»

Forse è per questo che molti migranti non riescono a sentirsi a casa?
«Per alcuni di loro è difficile integrarsi perché non si sentono accolti e quindi tendono a chiudersi in un ghetto. Conosco una signora brasiliana che fa la colf: vive negli Usa da 15 anni, non ha i documenti e non parla l’inglese, quindi vive come in una bolla. Non si è mai considerata a casa, qui».

Si dice che responsabilità di ciò che avviene in una relazione è di entrambe le parti, al 50 per cento: potremmo affermare lo stesso dei rapporti tra migranti e il Paese che li accoglie?
«Direi di no: i migranti devono affrontare pregiudizi e xenofobia, a tutti i livelli. Quando ci siamo trasferiti qui mio figlio aveva otto anni. Un giorno ha detto qualcosa a un suo compagno di classe e lui gli ha risposto: “Non accetto consigli da un sudamericano”. Questa non è una frase che un bambino di quell’età concepisce da solo, l’ha sicuramente sentita a casa. Certo, poi ci sono migranti che fanno resistenza rispetto alla cultura che incontrano, hanno difficoltà a essere aperti o a parlare la nuova lingua perché non la conoscono bene. Ci vuole molto coraggio: io nei primi tempi evitavo di parlare al telefono perché facevo fatica a capire l’inglese. È una posizione delicata, quella di chi si sposta. Non si può fare un calcolo matematico delle responsabilità».

Nel libro lei parla di resilienza (“la capacità di un corpo di riprendere, dopo un urto o una deformazione, il suo aspetto originale”) e di empatia. Ci spiega in che modo questi due concetti si possono applicare alla migrazione?
«Ad Alex piacerebbe essere resiliente, ma non credo che noi esseri umani possiamo, come gli oggetti, recuperare il nostro “aspetto originale” dopo un trauma. Non riprenderemo mai la forma che avevamo prima, però la nostra resilienza può consistere nell’inventarne una nuova, per continuare a vivere. Per quanto riguarda l’empatia, per me è il valore più importante del mondo. Si può ottenere tantissimo con l’empatia, ovvero imparando a vedere l’altro, riconoscendo che è diverso da te ma merita comunque rispetto. È un punto di vista rivoluzionario, perché di solito tendiamo a classificare le persone, a prendere posizioni nette rispetto a ciò che non conosciamo e non capiamo. L’empatia sfida questo approccio, rendendoci capaci di guardare l’altro senza pregiudizi».

David vorrebbe andare a morire fuori dagli Usa e chiede ad Alex di suggerirgli una destinazione. Lei sceglie Hanoi, anche se non c’è mai stata. Che significato ha la città vietnamita nel suo libro?
«È un luogo ideale, più che reale. David la elegge a suo “cimitero degli elefanti” e per lui è una meta così esotica che potrebbe riservagli qualunque sorpresa: forse persino la guarigione. Per la nonna e la madre di Alex, Hanoi non esiste più: non come la ricordano loro, per lo meno. Per Alex è un mistero che ha a che fare con la propria storia: all’inizio non sembra interessarle, ma quando vi mette piede è come si riconnettesse con le sue radici».

Perché ha deciso di indagare sui rapporti tra Vietnam e Stati Uniti?
«Quando ho iniziato a lavorare con i rifugiati ho cercato di leggere il più possibile sulla storia delle migrazioni verso di Stati Uniti. Così ho scoperto che negli anni Ottanta c’è stato un vero esodo dal paese asiatico. In particolare mi sono interessata alla storia dei bambini nati dalle relazioni tra donne vietnamite e soldati americani. Dopo la guerra, nel loro Paese erano considerati figli del nemico e a volte non erano nemmeno ammessi a scuola. Non appena fu possibile, le madri li portarono negli Usa: ma anche qui non erano a casa, perché non parlavano la lingua, né avevano i requisiti per trovare lavoro. Insomma, era come se per queste persone non ci fosse alcuna collocazione al mondo. Mi è sembrata una situazione estrema, e interessante».

Parliamo del suo Paese: com’è la situazione in Brasile, oggi? C’è ancora la tendenza a partire?
«No, e molti di quelli che erano andati via stanno tornando, perché ci sono più opportunità di lavoro in Brasile di quante ce ne siano in Europa o negli Usa. La società brasiliana ha fatto degli enormi passi avanti negli ultimi 15 anni: persone che prima pativano la fame oggi hanno la possibilità di mangiare due volte al giorno. Certo, c’è ancora molto da fare, e non sono sicura che si stia andando nella direzione giusta: la corruzione non è stata sconfitta, non si investe a sufficienza nella scuola, e una delle risorse alla base della crescita economica è il petrolio, che costituisce un rischio per l’ambiente».

Lei è una ex cantante e musicista e in questo libro c’è molta musica: è l’unico linguaggio universale che abbiamo?
«Si può suonare insieme anche se non ci si conosce e non ci si capisce: la musica può superare qualunque barriera di lingua, religione, cultura. Amo quella brasiliana perché è molto varia: si reinventa continuamente, accoglie ogni tipo di influenza e la incorpora. Se si adotta questo punto di vista, la xenofobia è assurda: cosa c’è di meglio che entrare in contatto con un’altra cultura, scoprire quali elementi contiene che ti possano interessare, prenderli e incorporarli nella tua identità?».

Gabriella Grasso