Intervista

Identità presunte, dialogo negato

Stefano Galieni - 30 Gennaio 2015

islam-e-cristian-300x163De-islamizzare il discorso pubblico (ma anche de-cristianizzarlo) e riportare il tutto su un piano in cui gli attori siano in primo luogo esseri umani e cittadini. E se fosse questa, adesso, la priorità? Non che prima le cose fossero radicalmente diverse, ma dopo l’attentato a Charlie Hebdo la quantità di parole spese contro, pro e in nome dell’Islam è arrivata a livelli inusitati. E questo, anche se comprensibile, finisce col costituire un nuovo, insidioso strumento di deformazione della realtà. A pensarla così è Adel Jabbar, sociologo di origine irachena e libero docente in varie università italiane. «De-islamizzare il discorso pubblico, ossia non utilizzare l’appartenenza religiosa come unico elemento fondativo della vita di ogni persona, oggi è una priorità, proprio per non restare invischiati nella trappola identitaria».

Perché l’identità dovrebbe essere una trappola?

«Perché il discorso, in quest’ambito, viene articolato troppo spesso utilizzando categorie statiche, stereotipate, oserei dire presunte. Ci sono, nella realtà, infiniti modi di essere religiosi o laici e fondare l’identità di una persona, solo sull’aspetto religioso rappresenta in ogni caso una forzatura. Succede poi, in un periodo di crisi come questo, che le identità preesistenti (magari un po’ più articolate e meno presunte (ndr), vengano frantumate. Questo è un duro colpo alla dignità dell’individuo e si può essere tentati di rispondere opponendo nuove forme identitarie, ricostruite, ristrette e apparentemente più dure, in realtà  profondamente fragili. Se guardiamo ai giovani italiani, oggi, l’elemento identitario veramente comune è, forse, l’essere disoccupati o precari. Ma non potendo offrire reali opportunità di lavoro, il discorso pubblico viene fatto virare su altri aspetti: si fanno discorsi da sciamani e si tende a proporre la difesa della propria italianità o cristianità o fede calcistica come a un refugium e a una “cura”. Questo non è solo inutile, è dannoso. Porta alla costruzione di identità violente, aggressive, che criminalizzano quelle altrui. Non ci si può meravigliare poi se crescono persone ostili».

E chi dovrebbe impegnarsi, in questa deislamizzazione del discorso pubblico?

«Tutti, ma i musulmani, io credo, dovrebbero prendere la cosa particolarmente a cuore: le organizzazioni dovrebbero incominciare a parlare maggiormente di cose come i diritti dei lavoratori e di cittadinanza, a occuparsi di casa, ordine pubblico, sanità, lasciando sullo sfondo la questione religiosa, la scelta di pregare e gli altri aspetti più personali. Non si tratta di inventare nulla: la storia, anche recente, è ricca di esempi che dimostrano come tanti cittadini di religione musulmana siano stati e siano presenti nella vita pubblica. La prima moschea, in Francia, è stata costruita dallo stato francese, dopo la Prima Guerra Mondiale, in segno di riconoscimento per l’impegno dei soldati musulmani durante il conflitto. A Roma, alla chiesa di S. Luigi dei Francesi, c’è una targa di marmo per ringraziare i soldati marocchini che avevano contribuito alla liberazione dal nazifascismo. A Parigi, Ahmed Merabet, il poliziotto ucciso durante l’attacco a Charlie Hebdo, era musulmano ed era lì per proteggere il giornale».

A chi serve la contrapposizione fra identità rigide o magari presunte e il disagio che ne deriva?

«La ricerca di un capro espiatorio serve, ad alcune forze politiche, per ottenere consenso, operazione che funziona soprattutto tra chi è più esposto alla crisi. Se si lavorasse, tutti, per rendere meno rigide le rappresentazioni delle nostre identità, si toglierebbero di certo argomenti ai personaggi che in Italia e in Europa soffiano sul fuoco».

Ma c’è anche una componente psicologica e soggettiva in tutto questo?

 «Sì, e non va sottovalutata. Bisogna tener conto del disagio legato alla difficoltà di affrontare il cambiamento e ciò che appare troppo diverso: una difficoltà che può sfociare nella paura di perdere l’identità e, quindi, in sentimenti di ostilità verso chi ha un aspetto, una lingua o degli abiti diversi. È molto diffusa la tendenza a vivere la quotidianità senza sapere o ricordare di essere nel “sistema mondo” e dunque immersi in un contesto per definizione variegato e sfaccettato. È paradossale poi che molto spesso queste identità contrapposte e cariche di astio reciproco finiscano col condividere, senza rendersene conto, uno spazio comune: il centro commerciale. Irriducibili l’uno all’altro come esseri umani, ma uniti dallo status di consumatori»

Come potrebbe essere ripensata l’identità?

«Come una federazione di “Sé”, che emergono in base alle condizioni e ai contesti e che possono costruire alleanze. C’è un film inglese recente, intitolato Pride, che esprime bene questo concetto. Parla dell’incontro fra le lotte operaie e quelle per la affermazione del proprio orientamento sessuale. Nella storia, in parte vera, ci sono persone appartenenti a ceti molto diversi che scoprono di avere delle cose in comune, per via dell’orientamento sessuale, e fanno un pezzo di strada insieme. Come dice Franco Cassano, la frontiera è sì una linea che separa (basti immaginare la dogana) ma anche capace di unire. Se le frontiere fossero servite solo a separare oggi non ci sarebbe un’Europa Cristiana né l’America Latina come la conosciamo».

Quindi le frontiere hanno perso di senso?

«Concepite come muri, non ne hanno mai avuto. A sancire l’inattualità delle frontiere oggi è il mercato. Di fronte a un sistema economico e finanziario sostanzialmente unificato, che permette a chi ha i soldi e li vuole investire di portarli dove meglio crede, l’appello alle frontiere (e a Schengen da rafforzare, e agli immigrati da fermare) è sostanzialmente inutile. Chi dice di voler fermare l’immigrazione, se fosse serio e consequenziale, dovrebbe in primo luogo proporre leggi per controllare i flussi di denaro. Ma l’inattualità delle frontiere si trova anche nella Bibbia. Pensiamo ad Adamo ed Eva: sono stati i primi che hanno attraversato il confine, sono loro la metafora della mobilità umana. Sono andati da un’altra parte, sono stati i primi espulsi, extracomunitari espulsi e irregolari. E tutto l’Antico testamento è una storia di popolazioni in cammino che nel cammino sono cambiate, è il Libro contro le frontiere…».

 

Stefano Galieni