Rom-anzi/2

Porrajmos, genocidio dimenticato

Sergio Bontempelli - 30 Gennaio 2015

schedatura-iii-reich-1941-buonaÈ un vero e proprio «genocidio dimenticato», quello che ha colpito rom e sinti nel periodo nazifascista: 500.000 vittime secondo le stime ufficiali, decine di migliaia di persone deportate nei lager, bambini sottoposti a esperimenti crudeli, donne e uomini torturati, umiliati e uccisi. Eppure ancora oggi, nella «Giornata della Memoria», si fa fatica a ricordare questo genocidio. Ne abbiamo parlato con Luca Bravi, che è oggi il più autorevole storico del «Porrajmos», cioè dello sterminio nazista di rom e sinti. E che è convinto, da sempre, che quella vicenda non sia solo un evento del passato da commemorare e onorare, ma anche un tassello importante della nostra attualità.

Professor Bravi, lei ha parlato spesso di uno «sterminio dimenticato»…
«Fino a pochi decenni fa, quasi nessuno ricordava la vicenda dei rom e dei sinti, vittime di una “soluzione finale” non troppo dissimile da quella subita dagli ebrei. Oggi, per fortuna, le cose cominciano a cambiare, sia pure lentamente: in Germania, per fare un esempio paradigmatico, il Porrajmos è stato riconosciuto ufficialmente solo negli anni Ottanta. In Italia, la prima commemorazione istituzionale risale al 2009, quando una delegazione di rom e sinti è stata ricevuta alla Camera per l’anniversario delle leggi razziali».

A cosa si deve questa rimozione?
«I motivi sono ovviamente molto complessi. Per limitarsi al più evidente, diciamo che per decenni non si è voluta riconoscere la natura “razziale” della persecuzione…»

Che vuole dire? Ci spieghi meglio
«Al processo di Norimberga i rom e i sinti non furono ascoltati, e nell’immediato dopoguerra le loro testimonianze non furono credute: pesava ancora il secolare pregiudizio contro gli “zingari”, radicatissimo nel senso comune europeo. Inoltre, i sopravvissuti ai lager non ottennero i risarcimenti previsti per le vittime del nazifascismo: si disse, allora, che i rom e i sinti non erano finiti nei campi di sterminio per motivi razziali, ma perché erano “asociali”, cioè criminali comuni…»

Non era vero?
«Oggi sappiamo con certezza che non era vero. I nazisti misero al lavoro un’équipe di scienziati, incaricati di studiare il “problema degli zingari”. Questi ricercatori – raccolti nell’Istituto di ricerca di igiene razziale ed ereditarietà dello psichiatra Robert Ritter – presero come “cavie” i rom e i sinti deportati nei “campi-sosta” del Reich. Dopo mesi di “studi”, conclusero che “la Questione Zingara è primariamente una questione razziale, di conseguenza lo stato nazionalsocialista dovrà risolverla così come sta risolvendo quella ebraica”. Così dichiarò Adolf Würth, antropologo e collaboratore di Ritter. Insomma, anche gli “zingari”» erano, per i nazisti, una razza inferiore e pericolosa…»

Tutte queste cose non si conoscevano nel dopoguerra?
«Per decenni lo sterminio di rom e sinti è stato dimenticato anche dagli storici: i lavori di approfondimento e le ricerche di archivio sono cominciati in tempi molto recenti. Ha pesato sicuramente il pregiudizio contro i cosiddetti “nomadi”, di cui si parlava prima. E forse ha giocato un ruolo anche l’ambiguità delle classificazioni razziali naziste: i rom e i sinti erano considerati “ariani”, e questo può aver ingenerato qualche confusione tra gli storici…»

I rom e i sinti erano ariani?
«Beh, può sembrare paradossale, ma è così. La distinzione tra ariani e semiti nasce dagli studi linguistici di fine Settecento: in base alle classificazioni stabilite allora, erano semite le lingue come l’arabo e l’ebraico, mentre si definivano ariane le lingue che oggi chiamiamo “indoeuropee”. Solo più tardi, tra Otto e Novecento, le tassonomie linguistiche sono diventate gerarchie razziali. Il romanès, cioè la lingua dei rom e dei sinti, deriva dal sanscrito, ed è dunque di origine indiana: i nazisti si trovarono di fronte al paradosso di una razza che consideravano inferiore, e che pure aveva un’origine “nobile”, dal loro punto di vista. La contraddizione fu risolta proprio da Robert Ritter, da Eva Justin e dagli “scienziati” del Reich. Secondo loro i rom e i sinti erano sì ariani, ma ariani degenerati: la razza era stata infettata dal Wandertrieb, cioè dal “gene del vagabondaggio”. Per questo dovevano essere sterminati».

Lei ha scritto che lo sterminio dei rom non è solo un fatto storico, ma ha a che fare con l’attualità. Che intende dire?
«La realtà di oggi è ovviamente molto diversa: nessuno in tempi recenti ha progettato lo sterminio di rom e sinti. Eppure, molti stereotipi di allora, declinati in chiave differente e con esiti (per fortuna) lontani dal progetto hitleriano, sono ancora attivi oggi. Si pensi all’espressione “gene del vagabondaggio”: oggi non crediamo più ad una gerarchia razziale radicata nella genetica, e dunque nessuno si esprimerebbe così. Eppure, continuiamo a chiamare nomadi i rom e i sinti: e la parola nomadi è una lontana eco del termine vagabondi. Il pregiudizio dei rom “erranti”, incapaci di condurre una vita sedentaria, è ancora molto forte: la sua persistenza nell’immaginario collettivo è frutto di percorsi storici che, pur con le dovute cautele, si possono tracciare e ricostruire».

Cosa intende dire?
«Torniamo agli scienziati razzisti al servizio del Reich: Eva Justin, Robert Ritter… Che fine fanno nel Dopoguerra? Nessuno di loro viene condannato per i crimini commessi. Ritter torna a lavorare come psichiatra infantile; Eva Justin diventa psicologa dei minori al Comune di Francoforte; Würth, l’antropologo che aveva invocato la “soluzione finale” per i rom, viene assunto in un ufficio regionale di statistica. Hermann Arnold, amico e collaboratore di Ritter, diventa addirittura un “esperto di zingari”: scrive libri molto letti e discussi, in cui sostiene che i rom sarebbero incapaci di raggiungere un quoziente d’intelligenza normale. La sua “pedagogia zingara” sarà alla base di molte esperienze di educazione dei bambini rom, anche in Italia…»

Ci sarebbe quindi una continuità tra le teorie naziste e il dopoguerra?
«In un certo senso sì, ma è bene chiarire bene un punto, per non generare confusioni: nel dopoguerra i sostenitori delle “pedagogie zingare” non sono affatto dei nostalgici del nazismo. E non sono nemmeno degli ingenui sprovveduti. Tutto al contrario. In Italia, per esempio, gli insegnanti che per primi sperimentano forme di “educazione speciale” per i bambini rom sono spesso dei volontari generosi, colti, sensibili. A volte si battono per contrastare discriminazioni ed esclusioni. Conoscono da vicino i rom e i sinti, e si sforzano di costruire una comunicazione con loro. Il fatto è che negli anni Sessanta e Settanta si è persa completamente la memoria dello sterminio, e nessuno collega il nome di Hermann Arnold, o quello di Eva Justin, ai crimini hitleriani, alle camere a gas, al genocidio. È per questo che le teorie “pedagogiche” possono circolare anche in ambienti che potremmo definire progressisti. Ma la cosa ha conseguenze devastanti, di cui ancora oggi vediamo gli effetti…».

Cosa intende dire?
«Voglio dire che è esistita una pedagogia che potremmo definire esplicita, cioè apertamente teorizzata e sperimentata, e una pedagogia implicita. Quella “esplicita”, almeno in Italia, ha prodotto le cosiddette classi speciali nelle scuole: i bambini rom non venivano accolti assieme a tutti i loro coetanei, ma finivano appunto in aule speciali per “nomadi”. Questa pedagogia, ispirata anche ai lavori di Hermann Arnold, è stata sconfitta: alla fine lo stesso Ministero ha dovuto riconoscere che produceva solo fallimenti. La pedagogia “esplicita” ha alimentato però quella “implicita”, cioè non detta e non teorizzata. Quando architetti e urbanisti hanno progettato i primi “campi nomadi”, sono partiti dall’idea per cui i rom sono arretrati, primitivi, vicini alla natura, estranei alla modernità e alla vita civile. Per questo dovevano vivere isolati dal contesto urbano. Per questo non si dovevano allestire per loro i servizi garantiti a tutti gli altri cittadini: perché in fondo, se gli “zingari” sono primitivi, non hanno bisogno di servizi. I campi nomadi, alla fine, sono nati da questa “pedagogia implicita”, che ancora ispira il senso comune. Ecco, non aver fatto i conti con la memoria del Porrajmos ci ha impedito di affrontare questi pregiudizi. Ha portato a costruire politiche abitative e sociali ispirate a una pedagogia implicita, eredità indiretta degli stereotipi razziali. Non si tratta di dire che i “campi nomadi” di oggi sono la stessa cosa dei campi di concentramento di ieri, questo sarebbe sbagliato e semplicistico: si tratta, piuttosto, di fare i conti con la nostra storia. Sapendo che le rimozioni del passato contribuiscono a riprodurre le politiche del presente».

Sergio Bontempelli