La storia

Mohamed, vita da arbitro

Stefano Galieni - 16 Febbraio 2015

arbitro-199x300Sono tanti i giocatori di origine straniera che si sono imposti sui campi di calcio nostrani, tanto da essere anche convocati nella Nazionale. Meno noto è il fatto che, fra i quasi 35 mila iscritti all’Associazione Italiana Arbitri ci siano (il dato è di fine 2013) oltre 400 persone provenienti da paesi extra europei. Gran parte degli arbitri e degli assistenti di gara svolge questo ruolo a titolo quasi gratuito, soprattutto per amore dello sport.

Noi raccontiamo la storia di uno di loro che, tra l’altro, vanta una intera famiglia di “giacchette nere”. Il suo nome completo è Mohamed Mahamoud Atta Alla Mostafa, ma per tanto tempo gli amici lo hanno chiamato Mohamed Atta, proprio come il più noto fra gli attentatori dell’11 settembre. «Una omonimia parziale – racconta il giovane arbitro – su cui gli amici a volte hanno scherzato. Nessuno mi vede a fare il terrorista». E in effetti Mohamed è un bell’uomo che dimostra meno dei suoi 37 anni compiuti. Un sorriso ampio e accogliente, l’attitudine all’ironia e al gioco mista anche ad una accogliente timidezza. Vive in Italia da oltre 12 anni, ha una moglie come lui egiziana, ancora in cerca di lavoro, e due figli piccoli. Si arrabatta per campare fra lavori a tempo determinato per aziende e consulenze in progetti legati ai fondi sociali europei (lo chiamano ogni tanto anche come mediatore) ma la sua passione è un’altra ed ha origine in famiglia.

«Mio padre è stato allenatore prima in Egitto, da dove proveniamo, e poi per la serie A in Arabia Saudita. Siamo sette figli, quattro maschi e tre femmine, e tutti, tranne uno, abbiamo intrapreso la carriera arbitrale». La sua è una storia in fondo semplice. Nel 2002 è stato fra i dieci selezionati per un progetto di scambio culturale in Germania, poi è venuto a lavorare in Italia nell’impresa edile di un parente, rinunciando peraltro alla carriera di insegnante in Egitto – è laureato in lettere – e l’Italia è divenuto il suo paese. «Io ormai mi sento un cittadino italiano – spiega – voglio che i miei figli crescano qui e devo dire che problemi seri di accoglienza non ne ho trovati». Ha fatto i corsi necessari all’abilitazione sportiva in Egitto e ogni settimana si ritrova nei campi di calcio di mezzo Paese come assistente (guardalinee) nei campionati delle serie minori.

È uno dei pochi nel Centro-Sud; la maggior parte degli arbitri di origine straniera, infatti, è attiva in Lombardia e in Emilia Romagna. «Certo – racconta Mohamed – mi sarebbe anche piaciuto giocare ma io, come i miei fratelli, non eravamo sufficientemente dotati per competere a certi livelli. Ho giocato fino a quando avevo 16 anni e poi sono diventato arbitro». «Quando sono arrivato qui avevo già 25 anni e mi hanno consigliato di passare direttamente a fare l’assistente. Le mie sorelle avrebbero potuto giocare, ma in Egitto, allora, non c’erano squadre di calcio femminili. Così hanno fatto il mio stesso percorso: Mona, la più conosciuta della famiglia, il mese scorso ha arbitrato la semifinale della Coppa D’Africa femminile, ancora prima era stata ai mondiali Under 20 in Cile».

Ma parlando di calcio con Mohamed è inevitabile toccare la questione del razzismo e degli insulti. Con lui il discorso si fa particolarmente interessante, anche per via del doppio status: da una parte è lo “straniero”, dall’altra incarna l’autorità perché ha il compito di far rispettare le regole. «Da assistente di gara sono obbligato a posizionarmi per tutta la partita su un’unica linea, percorrendola avanti e indietro come se fossi su un binario – dice – Quindi sono costantemente vicino al pubblico e in 90 minuti accade di tutto. Spesso i tifosi sono ignoranti, nel senso che ignorano le regole del gioco o non vogliono vedere ciò che accade. Sono regolamenti che, per altro, ogni tanto cambiano e che quindi vengono vissuti costantemente come ingiustizie verso la propria squadra o favori verso l’avversario. E allora piove giù di tutto – racconta – insulti ma non solo. A mio avviso, più che di provvedimenti punitivi, ci sarebbe bisogno di maggiore informazione, per chi va allo stadio, rispetto a quelle che sono le regole basilari del calcio».

«Solo in piccole frange delle tifoserie gli insulti hanno una forte matrice razzista. Mi è capitato in alcune partite di sentirmene dire di tutti i colori, di ricevere addosso di tutto e di beccarmi appellativi micidiali. Spesso mi dicono “marocchino di merda”, si vede che sono ignoranti, neanche conoscono la differenza fra Egitto e Marocco». «Avremmo dovuto e potuto superare tutto questo in Italia molto tempo fa e trovo assurdo dover combattere queste cose ancora oggi. Avremmo dovuto far entrare più forte in testa il valore dell’accoglienza». Lui, però, dice anche che, in situazioni del genere, si carica ancora di più, si concentra nel ruolo che deve ricoprire e non si lascia influenzare.

A fine partita, fra i suoi compiti c’è quello di stilare un rapporto, e allora Mohamed riporta fedelmente ogni fatto accaduto sugli spalti: «a volte – sostiene – di fronte ad alcuni episodi servirebbero provvedimenti immediati, come la chiusura delle curve, ma poi – insiste – bisogna lavorare sul breve e sul lungo periodo. Intanto, modificando i programmi televisivi che parlano di calcio, dando più spazio ai valori dello sport e utilizzandoli come strumenti per veicolare messaggi di inclusione. Pensando al futuro, bisognerebbe lavorare nelle scuole per insegnare il valore della diversità. Dove si fanno queste cose da tempo ci sono meno problemi».

Meno difficile è il rapporto con i giocatori in campo: «Mai ricevuto insulti di stampo razzista. Critiche per le decisioni sì ma insulti per la mia provenienza mai. Credo che questo non accada anche perché sanno perfettamente che rischiano di pagarne le conseguenze in termini disciplinari. Ma credo di poter dire che non lo fanno anche per convinzioni proprie. I giocatori che ho incontrato sanno bene di rappresentare un esempio per i propri tifosi e, soprattutto, per i più giovani. Li trovo da questo punto di vista sempre molto responsabili». «Io, malgrado tutto, sono ottimista – dice – Penso che l’Italia non sia un paese razzista. Parto dal mio piccolo esempio: nell’Associazione Italiana Arbitri mi hanno accolto a braccia aperte. Mi è bastato mostrare il tesserino che ho preso in Egitto e mi hanno immediatamente dato fiducia. Sono stati i primi a farmi sentire a casa. A dirmi che questa è anche casa mia».

Stefano Galieni