Uomini e caporali

Agro pontino, finalmente l’omertà vacilla

Marco Omizzolo - 22 Febbraio 2015

latinaKarl Marx, ne Il Capitale, affermava: «il proprietario di schiavi si compra il lavoratore come si compra il cavallo». È quello che pensano molti padroni italiani in provincia di Latina dei braccianti, soprattutto indiani, impiegati nelle loro aziende agricole. Lavoratori, spesso considerati alla stregua di animali da soma, che si comprano e si sfruttano fino a quando riescono a lavorare in campagna per 14 ore al giorno, pagati circa 3 euro l’ora, a volte derubati o raggirati. Parlano poco e male l’italiano e quasi mai sporgono denuncia.

Appena poche settimane fa un lavoratore indiano, l’ennesimo, è morto dopo essere stato investito sulla strada Flacca, tra le città di Fondi e Sperlonga, mentre tornava in bicicletta dal lavoro. Altri due provenienti dal Punjab sono invece caduti da una serra procurandosi serie fratture e ora sono ricoverati in ospedale. Emblematica l’intervista ad un bracciante indiano di Latina, tratta dal dossier di Amnesty International Volevamo braccia e sono arrivati uomini: «Sono pagato circa 3.10 euro l’ora. Non ho vacanze – domeniche, feste nazionali, neanche la Festa del lavoro. Dovrei guadagnare 800-850 euro al mese, ma il datore di lavoro non mi paga tutto il salario. A volte mi dà 200 euro, altre volte 400 euro. Mi paga gli arretrati molti mesi dopo – in genere quando decido di tornare in India».

Incidenti, violenze, sopraffazioni, caporalato, sfruttamento, truffe e mafie. Come ha denunciato l’associazione In Migrazione Onlus con il dossier Doparsi per lavorare come schiavi, per sopportare tutto questo a volte alcuni lavoratori indiani fanno uso di sostanze dopanti come oppio, metanfetamine e antispastici. Proprio come i cavalli, per arrivare primi al traguardo, in questo caso i lavoratori indiani assumono queste sostanze per continuare a lavorare ai ritmi e alle condizioni imposte dal padrone di turno. Che ovviamente spesso accondiscende alla pratica. Un lavoratore dopato regge meglio la fatica, lavora più ore e resta subordinato anche perché è più facilmente ricattabile.

Qualcosa, però, in questo sistema mafioso di sfruttamento è andato storto e i progetti imprenditoriali dei nuovi schiavisti e dei loro faccendieri, anche stranieri, sono stati interrotti per il coraggio di alcuni lavoratori indiani, stanchi di abbassare la testa e di dover dire sempre “padrone bravo”.
È accaduto l’8 gennaio scorso presso un’aula del Tribunale di Latina dove si è svolta l’udienza preliminare (Gip Laura Matilde Campoli) di un processo che può entrare nella storia giudiziaria del contrasto ai sistemi di sfruttamento dei lavoratori migranti in Italia. Sul banco degli imputati cinque persone, quattro stranieri (tre indiani e un pakistano) e un italiano, accusati del reato di falsità documentali per il rilascio dei permessi di soggiorno con l’aggravante dello sfruttamento della condizione di clandestinità. L’italiano è il proprietario di una azienda agricola nella città di Fondi (LT), mentre gli altri imputati sono considerati intermediari e faccendieri dell’imprenditore, corresponsabili della tentata truffa ai danni dei loro stessi connazionali. Tramite i loro buoni uffici con le rispettive comunità, procuravano clienti da sfruttare promettendo loro, in cambio di circa mille euro a persona, il rilascio del permesso di soggiorno. La parte offesa era composta da circa 30 indiani e un egiziano. Uomini e donne che, per la prima volta, si sono trovati in un’aula di tribunale a testimoniare di essere stati truffati dal padrone italiano e da alcuni loro connazionali.

Un gesto coraggioso che rompe una diffusa omertà determinata da un sistema mafioso a totale vantaggio del padrone e del suo potere di ricatto e minaccia. In sostanza, il sodalizio criminale falsificava tutti i documenti utili per il rilascio del permesso di soggiorno, a partire dalle buste paga, modelli Inps e atti di compravendita immobiliari, ottenendo guadagni per diverse decine di migliaia di euro. L’udienza preliminare si è conclusa con il rinvio a giudizio degli imputati e l’ammissione da parte del giudice della costituzione di parte civile avanzata dall’associazione In Migrazione Onlus, rappresentata dall’avvocato Salvo Cavallaro, insieme ad alcuni lavoratori indiani (altro elemento di novità) e alla Flai-CGIL, rappresentata dall’avvocato Diego Maria Santoro.

È la prima volta in Italia che in un processo di questa natura viene accolta, come parte civile, un’associazione e un’organizzazione sindacale. Un precedente di grande rilevanza che può contribuire a scardinare, anche in sede giudiziaria, il sistema rodato di sfruttamento che arricchisce padroni privi di scrupoli a discapito di migliaia di braccianti stranieri. La prima udienza dibattimentale si terrà il prossimo 15 luglio dinnanzi al giudice Aielli.
Aveva ragione Pasolini quando affermava: «Finché l’uomo sfrutterà l’uomo, finché l’umanità sarà divisa in padroni e servi, non ci sarà né normalità né pace. La ragione di tutto il male del nostro tempo è qui». La lotta, anche giudiziaria, continua.

Marco Omizzolo