Questioni aperte

Una Costituzione senza razza?

Sergio Bontempelli - 8 Marzo 2015

faloppa«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza…». Recita così l’articolo 3 della Costituzione italiana, che stabilisce l’uguaglianza di tutti i cittadini. Ma è quella paroletta – «razza» – a suscitare perplessità: perché se le razze non esistono, non si capisce perché si debba invocarle in un testo costituzionale.

Almeno questo è il parere di due autorevoli scienziati, Gianfranco Biondi e Olga Rickards: che hanno sottoscritto di recente un appello per cancellare quella parola dal testo fondativo della nostra Repubblica. «Nel corso degli ultimi cinque decenni», scrivono i due biologi, «la ricerca ha dimostrato sperimentalmente che il concetto di razza non può essere applicato alla nostra specie Homo Sapiens (…). Auspichiamo perciò che il termine sia eliminato dalla Costituzione e dagli atti ufficiali del nostro Paese».

E a dir la verità i due scienziati sono, per così dire, in buona compagnia: perché un gesto simile è già stato compiuto dalla Francia di Hollande, ed è oggetto di un vivace dibattito anche in Australia. Insomma, l’idea di cancellare la parola «razza» dal vocabolario giuridico si sta facendo strada in tutto il mondo. Ed è ora di parlarne anche in Italia.

La questione, però, è più complessa di quanto si immagini: e difatti, nel dibattito seguito all’appello degli scienziati, si sono registrate voci “dissonanti”, che hanno proposto di guardare il problema sotto diverse angolazioni. Federico Faloppa, autorevole linguista e Lecturer nel Dipartimento di Modern Languages dell’Università di Reading (Gran Bretagna), è una di queste voci. Lo abbiamo incontrato per capire meglio il suo punto di vista (espresso in un articolo pubblicato sul sito di Carta di Roma).

Professor Faloppa, cos’è che non la convince nella proposta dei due biologi?

Chiariamo subito una cosa, per evitare equivoci: capisco il senso dell’appello di Gianfranco Biondi e Olga Rickards, e ovviamente ne condivido lo spirito e le finalità. Sarebbe davvero ora che la parola “razza” – assieme al concetto che essa indica – scomparissero per sempre dal nostro vocabolario. L’appello sottoscritto dai due scienziati ha il merito indiscutibile di aver aperto il dibattito su questo tema. Mi chiedo però se la cancellazione di un termine da un testo giuridico sia sufficiente. Se non si debba invece mettere in campo una strategia più articolata.

Che intende dire? Ci spieghi meglio

Come ho spiegato nel mio articolo sul sito di Carta di Roma, il linguaggio si modifica a partire dall’uso dei parlanti. E quindi, prima di tutto, dovremmo capire se la parola «razza» è ancora in uso tra le persone, nelle conversazioni comuni o nei discorsi della stampa e dei mass-media. Oggi ci sono dei software che raccolgono le parole più comuni nell’italiano corrente, e che ci permettono perciò di capire non soltanto se un certo termine è utilizzato, ma anche qual è il suo reale significato nella lingua d’uso, quali i registri in cui viene utilizzato, quali i termini che co-occorrono con esso in determinati contesti, ecc. Ho provato per curiosità a fare una rapida ricerca su un vasto corpus di italiano “elettronico” (accessibile al sito www.sketchengine.com) della parola «razza». Questa non solo è ancora largamente usata, ma compare con significati molto generici e nei più diversi contesti. Dovremmo interrogarci di più su questo punto, per evitare di imporre un cambiamento, per così dire, «dall’alto», che rischierebbe di essere inefficace.

Il fatto che una parola sia largamente usata, però, non la rende corretta…

Certamente no. Però intanto ci chiede di riflettere se sia più utile un atteggiamento prescrittivo (questo termine è “corretto”, quello no) o criticamente descrittivo del linguaggio (questo termine è più frequente in determinati contesti perché…, quello in altri perché…). È auspicabile una “correttezza” assoluta, quando di parla di lingua?

Inoltre, complica gli strumenti che devono essere messi in campo per superare la parola «razza», o meglio per suggerirne delle alternative appropriate al contesto.

Mi spiego meglio: i due scienziati dicono, giustamente, che le «razze» non esistono dal punto di vista biologico e genetico. È una sacrosanta verità. Ma la parola «razza», nell’uso comune, si riferisce solo a una differenza biologica? O ancora: siamo sicuri che le discriminazioni razziali si basino solo sul concetto genetico di razza?

Quando si confinano i rom e i sinti nei campi, non si dice che «gli zingari sono geneticamente inferiori»: magari si fa appello a una diversità culturale considerata irriducibile, o a una (presunta) identità «etnica» un po’ primitiva, fondata sul nomadismo. Non si parla di biologia, di sangue, di patrimonio genetico: si allude all’etnia, alla cultura, alle «tradizioni» peculiari di un popolo. Ma anche in questo modo i rom e i sinti vengono razzializzati, cioè percepiti e trattati come una «razza», come un’entità differente e non assimilabile. Allora forse bisognerebbe interrogarsi sulla complessa stratificazione concettuale che sta dietro al termine «razza».

Ascoltandola mi viene in mente che, in effetti, anche dal punto di vista storico il concetto di «razza» non è sempre stato associato alla biologia e alla genetica. Nell’Ottocento, gli irlandesi e gli italiani emigrati negli Stati Uniti erano discriminati e trattati come una «razza» inferiore: perché erano cattolici e quindi «irriducibilmente diversi» dal mondo protestante americano; perché erano considerati primitivi, arretrati; perché i loro «usi e costumi» apparivano lontani dalla «civiltà». Si parlava comunemente di una diversità razziale: solo che la razza non era interamente associata a un fatto fisico, biologico, genetico…

Ecco, questo è il punto. Nella storia contemporanea sono esistiti tanti tipi di razzismo, e tanti modi di pensare la «razza». Lei faceva l’esempio degli italiani negli Stati Uniti. A me vengono in mente alcuni tratti del razzismo coloniale italiano, che parlava di «sbiancamento» del colonizzato: cioè di un’opera «educativa», diciamo così, che facesse progredire e civilizzare – sbiancare, appunto – gli africani neri considerati «incivili».

Sono solo degli esempi, se ne potrebbero fare molti altri. Il rischio è quello di identificare il razzismo con le teorie genetiche dei nazisti: ma quella è stata solo una fase – la più tragica, senza dubbio – del razzismo europeo. La storia è molto più complicata e articolata. E intorno alla razza si è costruita una complessa stratificazione di significati…

Siamo d’accordo su questo. Però tornerei al punto: la proposta dei due scienziati è quella di cancellare la parola «razza» dal testo costituzionale. Il fatto che il termine abbia avuto usi diversi, non solo legati alla biologia e alla genetica, non è un argomento per respingere la proposta dell’appello. Anzi, semmai potrebbe essere un ulteriore motivo per sostenerla, no?

Beh, anzitutto io non ho mai detto che la proposta di Biondi e della Rickards è sbagliata. Mi sono limitato a complicare un po’ il quadro, diciamo così: a fare una valutazione più complessa circa i tempi e i modi con cui condurre una iniziativa del genere: perché complesse sono le implicazioni, e non solo sul piano strettamente lessicale.

Il fatto che il concetto di razza abbia una storia così variegata e articolata, poi, significa che non basta un colpo di penna, un emendamento, per cancellarla. Le discriminazioni razziali esistono tuttora. La razza non esiste in natura, certo, ma esistono i processi sociali di razzializzazione.

Che intende dire?

Gli immigrati in Italia sono discriminati e trattati come un’entità separata, diversa. I rom e i sinti sono confinati nei campi. Le amministrazioni pubbliche spesso legittimano trattamenti differenziali e discriminatori tra «noi» (cittadini italiani) e «loro» (stranieri, migranti, minoranze). Per le strade o sui campi di calcio dilagano offese e insulti a sfondo razziale («sporco negro», e così via). La «razza» non esiste in natura: esiste però come processo sociale, come costruzione.

E allora bisogna interrogarsi su come descrivere e affrontare questi processi. Limitarsi a dire che «la razza non esiste» rischia di diventare un gesto un po’ «illuminista», diciamo così: è un discorso giusto, ma poi bisogna fare i conti con la realtà concreta, con la naturale vitalità della lingua e con le opzioni a disposizione dei parlanti.

Ascoltandola, mi veniva in mente una perplessità che ho sempre avuto su questo tipo di proposte. A mio parere, quando i testi normativi dicono che non bisogna discriminare per motivi di razza, non stanno dicendo che la razza esiste in natura: stanno vietando la discriminazione fondata su quel concetto, su quell’idea (vera o falsa che sia). Togliere la parola da un testo normativo rischia, paradossalmente, di indebolire l’efficacia del dettato normativo.

Anche questa mi sembra un’obiezione pertinente. E del resto un ragionamento del genere è stato sollevato – ad esempio – anche dal Guardian, in un articolo che parlava dell’iniziativa di Hollande in Francia.

In effetti, i testi giuridici hanno una funzione precisa, ed è importante tenerlo presente. Per dirla in modo schematico: la Costituzione vieta la discriminazione per motivi di razza; quindi, se tu dici «sporco negro» a qualcuno, hai utilizzato una categoria razziale, e io posso sanzionarti. A questo serviva il riferimento alla parola razza nella Costituzione: non certo a legittimare l’esistenza di diversità razziali… non dimentichiamo che la nostra carta fondamentale nasce dalla Resistenza e dalla lotta contro il nazifascismo. Le leggi razziali erano un riferimento ben noto ai nostri padri costituenti, i quali tra l’altro dedicarono un’attenzione scrupolosissima al linguaggio, che doveva essere preciso, semplice, diretto, acessibile a tutti…

Aggiungerei un elemento: se leggiamo le sentenze sui fatti di discriminazione, scopriamo che il concetto di «razzismo» non è affatto definito dal punto di vista giuridico. Vi sono magistrati che non considerano l’epiteto «sporco negro» come un insulto a sfondo razziale, e altri che invece lo condannano come un gesto razzista. Forse bisognerebbe chiedere di definire meglio il razzismo: di darne una definizione giuridica più precisa. Servirebbe a rendere più efficaci le norme contro la discriminazione. Che è poi la vera sfida: bandire il razzismo, disarmando il suo vocabolario.

Sergio Bontempelli