Letture meticce

La parola alle Seconde Generazioni

Gabriella Grasso - 8 Marzo 2015

non chiamatemi stranieroNuovi Italiani. Seconde Generazioni. Generazione Balotelli. Figli di (immigrati, stranieri). Italo-qualcosa. Sono anni che si cerca di definirli, perché chiamarli “italiani” e basta, nella maggior parte dei casi, non è né giuridicamente né culturalmente accurato. Secondo gli ultimi dati, nel 2011 i figli di migranti erano il 9,7% di tutti i bambini e adolescenti nel nostro Paese: il 71% di loro era nato in Italia. Ma dato che da noi vige lo ius sanguinis e non lo ius soli, se nasci qui da genitori che non hanno la cittadinanza italiana, pur vivendo esattamente come i tuoi compagni di classe nati a Perugia, a Verona o a Catania, hai bisogno di un permesso di Soggiorno. Solo a 18 anni ottieni, per un anno, il diritto a chiedere di diventare ufficialmente italiano. Questo, ovviamente, senza sapere quando riceverai una risposta.
Quello dei figli di migranti nati in Italia o arrivati qui da piccolissimi, è un universo composito di cui la giornalista Francesca Caferri fa un’ottima ricostruzione in Non chiamatemi straniero (Mondadori): intervistando giovani di 13 nazionalità diverse si fa raccontare storie, problemi, sogni, delusioni.

Cosa l’ha colpita di più nei suoi incontri con questi ragazzi?
«La loro determinazione. Quando nel libro li definisco “la meglio gioventù” non intendo dire che siano tutti bravi e buoni, perché ovviamente non è così. Però molti di loro mi hanno ricordato gli italiani degli anni Cinquanta e Sessanta per la voglia di fare, di sfondare. Non voglio generalizzare, ma nel paragone con i loro coetanei “italiani-italiani” (come li chiamano loro) le differenze da questo punto di vista si notano. La determinazione a riuscire nella vita è la stessa che ha spinto i loro padri e madri a venire in Europa. Con la differenza che i genitori, per stare qui, hanno accettato qualsiasi cosa. Loro, giustamente, fanno delle rivendicazioni».

Hanno la consapevolezza che per riuscire devono impegnarsi più degli altri…
«È così: sulla strada di Anwal, ragazza pachistana, figlia di un muratore, che vuole diventare medico, gli ostacoli sono molti. Ma quando i tuoi genitori hanno lottato per darti un futuro diverso, tu vuoi realizzarlo. Ecco il motivo per cui sentirsi rifiutati dall’Italia, per questi ragazzi, è ancora più pesante. È un blocco ai loro sogni. I continui “no” che gli vengono opposti rappresentano un’interruzione delle loro vite».

Anwal si commuove quando finalmente riceve la cittadinanza italiana, che la riconosce per quello che lei già si sente. Però afferma: “Quando sarà il momento di pensare a una famiglia, sceglierò un ragazzo di origine pachistana”. È una contraddizione?
«La caratteristica di questi ragazzi è di stare in mezzo a due mondi: non ce la fanno a sceglierne solo uno. Anwal sa che sposare un “italiano-italiano” la farebbe rinunciare alla sua parte pachistana. E sa anche che questa decisione spezzerebbe il cuore dei suoi genitori, cosa che lei non vorrebbe mai. Tutti loro restano in equilibrio tra due culture, in una maniera o nell’altro. Amin, per esempio, non sa niente della terra di origine dei suoi, la Somalia. Eppure si definisce “afroitaliano”».

Alcune delle storie che lei racconta mettono in evidenza l’assurdità della legge italiana: come quella di Mohamed, l’unico della sua famiglia a essere rimasto marocchino, anche se in Africa c’è stato solo qualche volta. La politica a che punto è?
«Qualche settimana fa Laura Boldrini ha proposto di portare la legge in aula, ma è stata attaccata, soprattutto dalla Lega. La verità è che è in questo momento la questione della cittadinanza non è una priorità per nessuno. Il fatto che Graziano Delrio, promotore della campagna L’Italia sono anch’io (che doveva raccogliere 50mila firme e invece ne ha raccolte 500mila) sia sottosegretario alla presidenza del Consiglio eppure non faccia niente, è significativo. Oggi portare avanti questa battaglia significherebbe dare voti alla Lega. Quindi è tutto fermo, la discussione della legge non è nemmeno in calendario».

A proposito di Lega, mi ha molto stupito quanto raccontano Tarek e Mohammed che vivono a Treviso: “La Lega ci aiuta, e anche parecchio in qualche occasione. Però la maggior parte di loro non vogliono che si sappia”. Che ne pensa?
«Anche per me è stata una sorpresa. La Lega sta compiendo un doppio percorso: pragmatico a livello locale, teorico a livello nazionale. Certi sindaci del Veneto, e il governatore Luca Zaia stesso che si è espresso a favore dello ius soli, non raccontano certe cose ai giornalisti, ma poi agiscono localmente. Zaia sa benissimo che, con la crisi che c’è in Veneto, avere dei “portavoce” in grado di parlare due lingue e di aprire le porte del mercato arabo e cinese alle industrie locali avrebbe un grosso impatto economico. La Lega è molto radicata nel territorio quindi conosce benissimo i cambiamenti che sono avvenuti nella società: anche più del Pd. Gianangelo Bof, sindaco leghista di Tarzo, in provincia di Treviso, che ha stanziato un fondo per pagare l’asilo ai bambini i cui genitori, quasi tutti immigrati, non possono permetterselo, dice chiaramente: “È un investimento per il futuro. Dare mille euro a un bambino di tre anni mi costa meno che intervenire quando ne avrà 16-17 con problemi di delinquenza”».

Una delle storie più forti è quella di Marco Wang, di Prato, che con una certa amarezza afferma: “È inutile provare a sentirsi italiano se hai una faccia diversa: io ho una faccia cinese, quindi sono cinese”. La chiusura è sempre una reazione al rifiuto?
«A Prato esiste una situazione molto particolare: italiani e cinesi vivono davvero come l’acqua e l’olio, senza mescolarsi mai. Ed è difficile capire se nasca prima la chiusura tipica delle comunità cinesi o il rifiuto da parte degli italiani. Di certo esistono entrambe le componenti. Quasi tutti i ragazzi cinesi che ho incontrato sono come Marco, vivono da cinesi all’interno di una comunità che non li invoglia ad aprirsi all’Italia. I giovani come Lina Pan, invece, che ha amici di tutte le origini e che in estate lavora all’isola d’Elba in un bar di italiani anche se i suoi genitori sono contrari, sono pochi. È indubbio che ci siano comunità, come quella cinese, pachistana e bengalese, che sono molto chiuse. Una maggiore apertura forse si avrà con le prossime generazioni».

Nella postfazione del libro lei accenna a un ragazzo veneto di origini marocchine che si è avvicinato all’Islam radicale. Che riflessioni ha fatto, dopo i fatti di Parigi dello scorso gennaio, sul nesso tra emarginazione e fondamentalismo in Europa?
«Se scoprissi che quel ragazzo marocchino, che non ha voluto farsi intervistare, è partito per la Siria, non mi stupirei. Ma lo avrebbe fatto comunque: con o senza la cittadinanza italiana. Non dico che risolvere la questione della cittadinanza eliminerebbe tutti i problemi: la Francia ci ha insegnato che non è così, sia con i disordini nelle banlieues di cinque anni fa, sia con i fatti di Charlie Hebdo di gennaio. Tuttavia rifiutare a questi ragazzi un riconoscimento non può che peggiorare le cose. I giovani che finiscono per radicalizzarsi sono una minoranza: ma il loro numero potrebbe crescere con il crescere della loro rabbia. Tutti quelli che ho incontrato sono arrabbiati: ma la maggior parte di loro riesce a utilizzare questo sentimento in modo costruttivo, investendo tutto nel proprio futuro o addirittura “sfruttandola” come fa il rapper Amir Isaa, italiano con padre egiziano. Ma la rabbia può anche essere usata per demolire. Quindi, anche se la cittadinanza non è la soluzione a tutti i problemi, è sicuramente un punto di partenza necessario».

Gabriella Grasso