L'intervista

Quirico: «L’Isis non è alle porte di Roma»

Stefano Galieni - 8 Marzo 2015

un-altra-giornata-di-terrore-da-parte-dell-isis_196007Ma l’Isis è davvero alle porte di Roma o in fila per salire sui barconi, come paventato da più parti? Noi, non avendo contatti diretti, abbiamo chiesto lumi a Domenico Quirico (inviato della Stampa, esperto di Medio Oriente, rapito in Siria ad aprile del 2013), uno che di minacce islamiche e dintorni se ne intende.

Ero al casello autostradale di Roma-Sud e non ho visto le bandiere nere dell’Isis, come mai?
L’idea che il califfato possa essere intenzionato o avere la possibilità di sbarcare alle foci del Tevere ed entrare nella Città Santa è semplicemente un’idiozia. Si tratta di un’esagerazione giornalistica. Non è che non ci sia un rischio legato al totalitarismo islamico, ma non è questa la loro strategia. L’obiettivo di chi sta costruendo questa nuova forma statuale è interno. L’assalto all’occidente ce lo siamo inventato noi, perché ignoriamo e/o dimentichiamo  quel che avviene al di là del mare.

Ma come far comprendere che si tratta di una paura priva di fondamento, quando c’è chi dice che “nei barconi si annidano i terroristi”?
Dicendo che gli strumenti di quello che chiamiamo, per semplificazione, “terrorismo islamico” non hanno bisogno del barcone. Non si può correre il rischio di preparare il combattente per perderlo poi in mare. I combattenti in Europa li hanno già, lo insegnano le recenti vicende parigine. Si tratta di musulmani di antica immigrazione su cui è stata fatta opera di indottrinamento e arruolamento. Si sono consolidate delle coscienze forti per chi è già qui.
Esiste, se vogliamo essere più puntuali, un rischio nuovo rispetto al passato. Per la prima volta le formazioni islamiste hanno modo di impadronirsi della costa sud del Mediterraneo. Potrebbero imbottire le menti di chi parte, ma avrebbero bisogno di tempo per farlo, dovrebbero divenire stabilmente padroni della Libia, ad esempio. Dovrebbero essere in condizione di  controllare i migranti, cosa che finora non hanno fatto. Oggi li hanno a disposizione per poco tempo, proprio in quanto migranti, al massimo ne traggono profitto facendo pagare loro una tassa per partire. Certo, se il controllo del Paese finisce nelle mani di alcune forze, col tempo, le cose potrebbero cambiare.

Il rischio di una guerra, combattuta anche dai paesi occidentali, potrebbe far precipitare la situazione?
Quando sono stato in Libia – perché è questo il paese fondamentale parlando di immigrazione – ho trovato un caos gigantesco. A mio avviso oggi basterebbero mille uomini bene armati fra gli islamisti per conquistare il Paese, e le bande in grado di farlo ci sarebbero anche. In fondo si è tornati alla situazione di quelle aree un secolo fa, quando l’Italia era l’occupante. Le forze dei diversi governi riconosciuti non sono stabili. Il paragone è con quanto accaduto in Iraq: l’esercito iracheno era composto da 600 mila soldati regolari e da oltre 300 mila irregolari, eppure hanno perso una città di 2 milioni di abitanti come Mosul. Si tratta di eserciti composti da mercenari spesso non pagati e poco motivati. In questo caso, la determinazione entra in gioco in maniera rilevante, più dei numeri.

E rispetto al rischio che nelle città italiane si annidino quelle che chiamano “cellule dormienti”?
Anche su questo tema girano immagini deformate e deformanti. Non siamo come in Francia o nel Regno Unito, o addirittura in Belgio, dove si contano migliaia di foreign fighters: da noi si può parlare al massimo di singole unità, che non pensano certo di combattere nel nostro territorio. E non si tratta solo di una questione di numeri ma di obiettivi che, come dicevo all’inizio, sono altri.

Osservando le loro tecniche comunicative, sembra di capire che queste nuove forme di fondamentalismo si siano estremamente raffinate nella capacità pervasiva.
Certamente. Nulla a che vedere con i video amatoriali girati da Al Qaeda. C’è un salto di qualità nelle ambizioni, basta vedere la qualità dei loro messaggi, capaci di coinvolgere e di far sentire vincenti coloro a cui sono rivolti. C’è l’elemento del successo che genera successo, che genera volontà di emulare. Il califfato è questo, determina una moltiplicazione dei consensi e adesioni. Non si tratta solo delle persone marginali, magari passate per il carcere, che con la militanza acquistano una propria identità di riscatto. C’è ormai un islam che si sente in grado di cambiare il corso della storia, di vincere e di amministrare i territori governati.

Come dovrebbe reagire l’occidente dal punto di vista politico? Con la guerra?
Accadono cose che mi lasciano perplesso. Gli Usa hanno spinto l’esercito iracheno ad accettare il supporto sciita iraniano per riprendere Tikrit, città kurda, e da lì dare l’assalto a Mosul, la vera capitale dell’Islamic State. Se Baghdad accetta l’aiuto dei pasdaran iraniani c’è il rischio che tutte le tribù sunnite, oggi divise, si uniscano contro gli sciiti iraniani, favorendo così l’egemonia dell’Isis. Ecco, questo è un esempio di cosa l’Occidente non deve fare. Da questo punto di vista hanno ragione i governanti israeliani, che considerano l’Iran più pericoloso dell’Isis.
Quanto all’Europa e in particolare all’Italia, un intervento armato in Libia lascia molte ombre. Leggevo ultimamente che lì c’è il rischio di una “guerra totale”. Perché quello che c’è adesso cosa è? C’è chi parla di intervento armato e chi di bloccare le coste per tagliare i rifornimenti agli islamici. E qui si sfiora il ridicolo. Intanto perché gli aiuti ai fondamentalisti giungono da sud, dal deserto e non certo dalle coste, poi perché in molti si stanno armando ripulendo gli arsenali di Gheddafi, a ultimo poi per una ragione di cui si parla poco e che riguarda le forniture energetiche.

Che finora non sembrano messe a rischio
Già e non le pare strano? In Libia ci sono almeno 300 formazioni armate che si fronteggiano. Né a Washington né a Roma sembrano sapere cosa fare ma, intanto, appoggiano il governo di Tripoli che è ostile a quello di Tobruk, legato all’Egitto. Il governo di Tripoli sostiene le forze islamiste, a loro giungono i soldi del petrolio e del gas, non solo italiani. La domanda che ci dovremmo fare e a cui ci dovrebbe essere data risposta, prima di mandare gli “incursori” è: l’Eni a chi versa i soldi? Basterebbe un fiammifero per bloccare le forniture di greggio ma questo non avviene. A partire dalla morte di Gheddafi noi abbiamo pagato e continuiamo a pagare ma alla pubblica opinione non è dato sapere chi  guadagna. Forse, gli stessi terroristi che temiamo di trovarci in casa sotto le mentite spoglie di migranti.

Ne sappiamo poco anche perché manca un lavoro di informazione?
Sarò antico ma io resto convinto che per parlare di questi temi non si può scriverne da casa, leggendo le agenzie. Bisogna andare, cercare, scrivere i pezzi in loco e avere fonti affidabili. Conoscere le realtà in cui certi fenomeni si vanno determinando, altrimenti prevale la superficialità che poi rafforza il veicolarsi di certe stupidaggini come quelle che accennavamo all’inizio di questa intervista.

Stefano Galieni