Colonialismo

Il razzismo italiano ha la sua storia

Valeria Deplano - 8 Marzo 2015

Foto dell’archivio Tarabini Fossa, esposta alla mostra Africa-Italia, in corso dal 28 febbraio al 24 marzo al Museo di Roma Palazzo Braschi (www.museodiroma.it).

La fine del colonialismo italiano è stata un processo più lungo e dai contorni molto meno definiti di quanto suggeriscano, solitamente, i manuali di storia. Persone, istituzioni e modi di pensare provenienti da quel passato continuarono ad influenzare la vita sociale e politica dell’Italia postfascista e repubblicana anche dopo che il governo De Gasperi, firmando il trattato di pace di Parigi, aveva chiuso ufficialmente – ma senza mai farci i conti – un capitolo lungo settant’anni, fatto di occupazioni, deportazioni e violenze. Parla di questo il volume collettaneo Quel che resta dell’impero. La cultura coloniale degli italiani recentemente uscito per Mimesis, che tra le altre cose racconta la storia dei giovani somali giunti in Italia negli anni Cinquanta, per studiare nelle università della penisola.

Nella Somalia del dopoguerra l’onda lunga del colonialismo era un dato di fatto, sancito ufficialmente dalla situazione istituzionale del paese: l’Italia, il vecchio occupante, non se ne era ancora veramente andato. Su mandato delle Nazioni Unite, infatti, aveva assunto nel 1950 l’amministrazione fiduciaria del paese africano (AFIS): un periodo lungo dieci anni durante il quale la neonata Repubblica Italiana avrebbe dovuto “preparare all’indipendenza” la sua vecchia colonia.
Questo significava, in teoria, dotare il paese di tutte quelle strutture che, proprio a causa della lunga notte coloniale, la Somalia non aveva potuto sviluppare. Nella pratica, i dieci anni di amministrazione fiduciaria furono utilizzati dagli italiani per tutelare i propri interessi nel Corno d’Africa e per assicurarsi un ruolo di primaria importanza anche nel futuro indipendente del paese. A questo obiettivo rispondeva, in parte, anche la scelta di far studiare in Italia la futura classe dirigente della Repubblica Somala.

somaliaDopo che per decenni ai giovani somali era stato impedito di proseguire gli studi oltre la terza – poi quarta – elementare, ora l’Italia si impegnava non solo a creare un sistema scolastico in grado di fornire un’istruzione primaria alla popolazione, ma anche a formare i quadri dirigenziali del paese. E di certo non si trattava di una scelta disinteressata: il percorso di studi in Italia, scrivevano in maniera poco velata i funzionari dell’AFIS, avrebbe assicurato una classe dirigente filoitaliana sulla quale contare all’indomani del fatidico anno 1960.
Fu così che, a metà del decennio, i primi studenti giunsero nella ex-madrepatria: inizialmente erano maestri, poi studenti di scienze politiche, in misura minore studenti di medicina, di materie economiche, ingegneri. A loro spettò anche l’onere di sperimentare, per primi, un altro effetto dell’onda lunga del colonialismo: la discriminazione. A parte i problemi quotidiani, come quello di trovare un locatore disposto ad affittare un alloggio ad uno studente nero, alcuni di loro furono i protagonisti di uno dei primi episodi di razzismo a giungere agli onori delle cronache.

Era un altro undici settembre, quello del 1959. Un diverbio scoppiato in un bar tra otto studenti africani (sette somali e un sudanese) e due giovani italiani era sfociato in una rissa al termine della quale gli otto furono arrestati con l’accusa di violenza e di vilipendio alla nazione. Il giorno dopo i giornali di destra e la stampa moderata descrissero gli studenti come “euforici”, “completamente ubriachi”, “scalmanati”, “energumeni”, disegnandone un ritratto che ricorda da vicino la più tradizionale e becera descrizione dei neri in periodo coloniale: “carattere volubile”, “indisciplinato”, “facilmente eccitabile”.
Grazie alla testimonianza del barista del locale, però, nei giorni successivi venne a galla un’altra verità: i due italiani erano entrati nel bar con l’esplicito scopo di molestare gli studenti, invitandoli prima a intonare la canzonetta fascista e razzista Faccetta nera, e poi continuando a minacciarli con frasi di sapore coloniale: «Avete dimenticato la frusta – dicevano – Torneremo in Africa e vedrete».

La nuova versione dei fatti non solo fece scattare la denuncia nei confronti dei due italiani, ma portò anche alla ribalta un problema che era non solo e non tanto quello dei dei due provocatori – che si rivelarono essere militanti del Movimento Sociale Italiano – ma sopratutto quello dei giornalisti e della polizia, che avevano preso le parti dei connazionali in maniera automatica e acritica. “Che dire dell’Italia, persino dell’Italia che si proclamava democratica e meno drastica in fatto di razzismo?” si chiesero quindi gli studenti somali sul loro giornale, Lo studente.

La domanda appare quanto mai attuale e opportuna: che dire dell’Italia, che si è sempre proclamata antirazzista e che tende da sempre, e sempre di più, a rovesciare la responsabilità degli episodi di intolleranza sui migranti presenti nel paese? La ricostruzione di episodi come quello degli studenti somali consente di riflettere non solo sui molteplici modi attraverso cui il colonialismo ha continuato a proiettare la propria ombra anche sull’età repubblicana, ma anche sulla presenza del razzismo come elemento profondamente radicato nella cultura del paese.

Valeria Deplano