In primo piano

Afroitaliani e dintorni, polemiche e sfide reali

Martina Zanchi - 15 Marzo 2015

1016842_bambola_gotz_mulatta Neri, misti, mulatti, meticci, beige o, forse, afroitaliani…
Il primo ostacolo su cui capita di arenarsi, parlando di bambini con madre bianca e papà nero (o viceversa), spesso è proprio è la mancanza di un termine accettato all’unanimità per definirli. Qual è la parola giusta? Ed è davvero necessario trovarla? Poi c’è la questione se questi bambini richiedano o meno particolari accortezze pedagogiche e, se sì, quali.
Di tutto questo si è parlato parecchio, e raggiungendo anche feroci picchi di polemica, a inizio anno, dopo la messa on line di una puntata di Allo Scoperto titolata appunto  Afroitaliani?
Se l’aveste persa, vi consigliamo di andarla a recuperare. Per quanto riguarda gli insulti e le prese in giro, fidatevi: indipendentemente dalle opinioni di ciascuno, sono stati davvero eccessivi.

Afroitaliano è un neologismo coniato più di dieci anni fa da Sabrina Jacobucci, che ha avuto due figlie con un partner nigeriano ed è rientrata in Italia dopo aver vissuto a lungo nel Regno Unito. E’ una parola per certi versi paradossale (accosta una nazione a un continente) ma che innegabilmente è entrata a far parte del vocabolario quotidiano di chi, per le ragioni più diverse, ha a che fare con bambini misti.
A Roma Jacobucci ha dato vita all’ associazione Afroitaliani/e  , allo scopo di fornire un supporto a se stessa e ad altri genitori nella sua stessa condizione.  Il gruppo, che da qualche tempo ha una succursale milanese (attivata da Cristina Sebastiani, counselor delle migrazioni e autrice del blog Diaxasso), propone incontri mensili tra le famiglie “miste” che sentano la necessità o il piacere di condividere esperienze, consigli e suggerimenti in un contesto diverso da quello abituale, ossia «in un contesto  in cui i propri figli non siano minoranza».
Anche i piccoli, infatti, partecipano agli incontri, seppur separati dagli adulti e giocando tra di loro. «Questi bambini  vivono e crescono in Italia, passano la maggior parte del loro tempo in un contesto sociale prevaletemente bianco, però  hanno la pelle nera e discendono dalla diaspora africana. Noi vogliamo dar loro la possibilità di rispecchiarsi, da qui l’idea di farli giocare insieme, sotto la supervisione di un animatore nero, mentre gli adulti si confrontano sulle problematiche specifiche legate al fatto di essere padre o madre di un bambino afroitaliano».

L’associazione cerca di essere molto attiva sul piano culturale, diffondendo informazioni rispetto a libri, giochi o strumenti didattici capaci di reappresentare anche l’afroitalianità. Un altro argomento cult sono i capelli degli afroitaliani, ritenuti troppo spesso oggetto di attenzioni invadenti da parte degli autoctoni bianchi, che avrebbero poca consuetudine col crespo e con i riccioli. Dei capelli si parla spesso anche da un punto di vista cosmetico: come trattarli? quali prodotti usare?  In caso di famiglie monogenitoriali o in cui per varie ragioni la parte nera è poco presente, il gruppo dovrebbe aiutare anche ad attivare o rinsaldare i legami con l’Africa. Ecco, per esempio, cosa scrive Ilaria Lo Cascio. madre di un bambino per metà antillano, frequentatrice del gruppo milanese, in una lettera riportata da Diaxasso: «Io e Gabriel viviamo in un piccolo paesino di provincia dove lui è l’unica persona nera della sua classe, della sua scuola, della squadra di basket, della piscina, del gruppo di amichetti dell’oratorio e persino della sua famiglia. Da questo punto di vista, se vogliamo, per le mamme single può essere di particolare utilità la frequentazione del gruppo – cosa che del resto varrebbe per i papà single o per i genitori che hanno adottato bambini neri: dare ai nostri figli la possibilità di frequentare altre persone nere o miste, con cui confrontarsi, giocare o prendere a modello, dai quali imparare tradizioni e usanze, con cui scambiare sguardi che per una volta non abbiano la curiosità di scoprire come sono fatti i capelli crespi, che sfumatura di ambra ha la pelle di uno o dell’altro. Gabriel non ha mai modo di confrontarsi con altre persone nere e miste…».

Le intenzioni (rafforzare l’autostima dei bambini, attrezzarli contro il razzismo…) sono ottime, ma non mancano dubbi e critiche. La più frequente è quella di proiettare sui bambini paure e insicurezze degli adulti, seguendo un approccio fondato proprio sulla discriminazione razziale, seppur rovesciata rispetto alla prassi più comune. «Agli incontri, infatti, non possono partecipare bambini che non rispondano al requisito dell’afroitalianità, ossia misti e neri», osserva Emanuela D., che ha una figlia dall’attuale compagno ivoriano e un’altra, bianca, da un’unione precedente (in realtà i cuginetti, i fratelli e altri congiunti sono i benvenuti, a prescindere dal colore della pelle ndr). «Un gruppo che volesse riunire solo bambini biondi con gli occhi azzurri sicuramente sarebbe stato accusato di essere razzista. Perché questo no? Non capisco poi perché un bambino misto debba essere considerato nero: non lo è. Questo non è un bene o un male, sia chiaro, ma un dato cromatico».
Graziella Favaro, pedagogista impegnata sul tema dell’interculturalità, invece, è perplessa rispetto alla visione  monolitica dell’Africa che  emerge dalla raffigurazione afroitaliana.  Se questo genere di incontri può essere positivo dal punto di vista del confronto tra i genitori e del momento di animazione per i più piccoli, gestito da figure autorevoli con cui condividono i tratti somatici,  è più delicato il riferimento all'”africanità”, dice. «Se si tratta di una questione legata alla costruzione dell’identità relativamente alla pelle nera e all’Africa bisogna valutare il fatto che questa è un continente e che ci sono differenze notevoli, tra stato e stato, nelle abitudini e nelle tradizioni». A meno di considerare, per dire, un polacco e un italiano culturalmente interscambiabili perché entrambi europei.

Stefania Ragusa, direttore di Corriere delle Migrazioni e mamma di una bambina italosenegalese, oltre a non vedere la necessità di trovare una definizione identitaria a priori («saranno i diretti interessati, al momento opportuno, a scegliere come inquadrare la propria identità»), avanza alcuni dubbi anche sullo schema binario (società prevalentemente bianca vs minoranza nera) che è il sottinteso del discorso afroitaliano: «La nostra storia è molto diversa da quella americana ed è con questa che dobbiamo fare i conti: non con la segregazione razziale ma con le leggi razziali del ’38 e con il razzismo e il disprezzo verso i meridionali, che oggi è stato accantonato per lasciare spazio alla demonizzazione dei migranti, ma ha lasciato segni profondi. Mi lascia un po’ perplessa anche l’enfasi riservata al discorso capelli. Probabilmente perché sono siciliana e in Sicilia, come in Calabria e in tutto il sud, tantissime persone hanno i capelli crespi e ricci (a volte pur essendo bionde) e questo non ha mai attivato curiosità. E non mi risulta che le madri dei miei compagni crespi avessero avuto bisogno di particolari consigli per riuscire a pettinarli. Detto questo però, a Sabrina Jacobucci va riconosciuto il merito di avere posto per prima la questione, aprendo la strada ai ragionamenti che stiamo facendo ora».
Aliou Diop, l’autore della puntata di Allo Scoperto che ha dato adito a tante discussioni, fa una riflessione a proposito dell’identità. «Sono cresciuto in Senegal guardando  I tre Moschettieri e altre produzioni occidentali, con protagonisti bianchi. Mi identificavo senza problemi nei miei eroi». Come a dire: l’identificazione, l’introiezione di modelli non passa necessariamente attraverso il colore della pelle. «Non vedo la necessità di coinvolgere in questi  gruppi  i bambini. Penso che possano essere una buona soluzione per i genitori che hanno bisogno di confrontarsi, ma i figli non hanno bisogno di leggere libri con protagonisti neri per costruire la propria identità». La costruzione dell’identità è una faccenda più complessa, il colore della pelle è solo una delle numerose variabili in campo e, sottolineandolo così tanto, si rischia quasi di farla diventare la più importante.

Le perplessità dunque non si trasformano necessariamente in uno stigma. E quando succede varrebbe la pena di fermarsi a riflettere un momento. «Ognuno è libero di fare quel che vuole», dice Sara C., madre single di un bambino misto. «Io non frequento questa associazione perché non ne sento il bisogno e non uso la parola afroitaliano perché preferisco dire italo-senegalese. Ma sono rimasta molto colpita dalla violenza con cui l’iniziativa e le sue promotrici sono state attaccate sui socialnetwork. Un accanimento di questo tipo si spiega solo col fatto che evidentemente sono stati toccati punti molto vivi o con forti rancori personali». In ogni caso, l’afroitalianità non è una religione e non richiede adesioni dogmatiche. Roberta Shitta, italo-nigeriana sposata con un camerunese e madre di due bambini, frequenta regolarmente l’associazione di Milano, ma parlando dei suoi figli preferisce usare il termine misto. «Io stessa mi definisco in questo modo. Afroitaliano mi sembra impreciso. Vado volentieri agli incontri perché ho stretto amicizia con diverse persone e perché è utile confrontarsi con i genitori. Ci consigliamo a vicenda sulle letture da proporre ai bambini, sulle piccole cose della vita quotidiana». Ma quello che le interessa, dice, non è che i piccoli vedano “altri come loro”: «il gruppo è uno degli strumenti che io e mio marito usiamo per educare i nostri figli alla multiculturalità». E’ questa la vera sfida in un paese che è già multiculturale ma troppo spesso non se lo ricorda.

Martina Zanchi