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17 marzo 1891

Daniele Barbieri - 16 Marzo 2015
Utopia fu denominata «il Titanic dei più poveri»

Utopia fu denominata «il Titanic dei più poveri»

Affogano fra le onde in 576. Molti resteranno sconosciuti. Fra i cadaveri viene ritrovata una donna di mezza età che tiene ancora stretto al collo un bambino di circa 2 anni: inutilmente ha cercato di proteggerlo. E’ accaduto sulle coste italiane, eppure si è persa memoria di un tragedia così grande. O forse…c’è un piccolo errore: italiane sono le vittime e non le coste.
Sul finire del ‘800 e poi per gran parte del ‘900 sono gli italiani i disperati, i “pezzenti” che migrano a ogni costo (anche verso quei Paesi dove le leggi sanciscono che non si può dare lavoro agli stranieri) e spesso muoiono nel tentativo di raggiungere le “terre promesse”, al di là dall’oceano. Avere dimenticato la nostra storia rende più difficile identificarci con chi, oggi, arriva in Italia per le stesse ragioni di allora, correndo gli stessi rischi o morendo in mare.

Si chiamava Utopia: nome augurale che, però, si rivela una tragica ironia o una premonizione, per i più pessimisti. E’ la nave – un bestione inglese di 2731 tonnellate – che il 7 marzo 1891 parte da Trieste, fa tappa a Napoli – imbarcando soprattutto persone arrivate da Abruzzo, Calabria e Sicilia – per poi affondare, nel tardo pomeriggio del 17 marzo, nella baia di Gibilterra. Il tempo è pessimo e, probabilmente, il timone è rotto. A questo si aggiunge un grave errore del capitano (John McKeague) che porta l’Utopia a scontrarsi con la corazzata inglese Anson.
Muoiono 576 degli 813 migranti che vi erano a bordo, tutti italiani tranne alcuni slavi: da quel che si sa, sulla Utopia c’erano 661 uomini, 85 donne, 67 bambini. Solo 3 erano passeggeri «di prima classe», che viaggiavano per piacere e non spinti dalla necessità e dal sogno. Con loro 59 membri dell’equipaggio e, a quanto pare, 3 clandestini. Dalle navi intorno partono i soccorsi: nel generoso tentativo di salvare i naufraghi muoiono anche due marinai inglesi (George Hale e John Croton) dell’incrociatore Immortalité: un altro nome carico di tragica ironia.

utopia1E’ una delle storie che Gian Antonio Stella ricostruisce, sulla base dei documenti d’epoca, nel libro Odissee. Italiani sulle rotte del sogno e del dolore (2004); è il seguito del più famoso L’Orda, quando gli albanesi eravamo noi, diventato poi anche uno spettacolo teatrale.
Ma non sarà solo Utopia a naufragare con a bordo emigranti italiani. Il 4 luglio 1898 affonda una nave francese, il Bourgogne: 549 i morti.

La tragedia del Sirio, qualche anno più tardi, resterà anche in una celebre canzone riproposta, pochi anni fa, da Francesco de Gregori e Giovanna Marini. Accade il 4 agosto 1906. Il vapore Sirio – senza neppure le scialuppe – imbarca migranti a Genova per dirigersi in Brasile ma affonda sulle coste di Cartagena, in Spagna. Ufficialmente i morti sono 292 ma, secondo Stella, arrivano a 400, forse 500.
Anche il numero delle vittime del Principessa Mafalda è incerto: 314 la cifra ufficiale, più probabilmente 657. E’ una nave italiana diretta in Brasile che, poco prima di raggiungerlo, si inabissa. E’ il 25 ottobre 1927. Una tragedia immane – la strage di italiani in mare più grande del ‘900 – ma i giornalisti tacciono o minimizzano, parlando di «poche decine di vittime». Siamo in epoca fascista e il regime non gradisce che si mostri un’Italia povera e disperata: la censura è facilitata dalle leggi «fascistissime» del 1925 (successive al delitto Matteotti).
I processi agli “scafisti” – come li chiameremmo oggi anche se, in realtà, quelli di cui parliamo, sono sovente ricchissimi armatori – finiscono spesso in farsa. Per il naufragio dell’Utopia, un tribunale italiano condanna gli Henderson Brothers a risarcire le vittime ma, dopo il “rifiuto” degli armatori a pagare, si innesca un lungo contenzioso legale.

Chi desidera approfondire la vicenda legga anche Il naufragio dell’Utopia (dal sottotitolo: il Titanic degli abruzzesi dimenticati) scritto nel 2013 da Marino Valentini. Sul processo, invece, in rete è disponibile questa intervista a Joseph Agnone, rilasciata a Il Cronista.

Daniele Barbieri