La storia

Habiba Ouattara, mediatrice-rifugiata

Stefano Galieni - 24 Marzo 2015

foto_habiba_2 (1)«Dovevo arrivare a Termini. Termini, per me era Terminus, la fine del viaggio, l’inizio di una nuova vita». Habiba Ouattara, cittadina ivoriana, racconta la sua odissea  partendo dalla fine, dal momento in cui, scendendo da un treno, si è ritrovata nel caos romano senza avere un punto di appoggio. Roma Termini, infatti, è la stazione ferroviaria principale della Capitale.
Habiba è una rifugiata politica, una mediatrice culturale con un contratto a tempo indeterminato e la vita sembra finalmente sorriderle. E’ stata aiutata e ora è a disposizione di chiunque chiede una mano. Sta per prendere la patente di guida (ha superato i quiz e attende la prova pratica) vive in una casa col suo compagno, è in attesa della cittadinanza italiana e guarda al futuro con ottimismo ma non dimentica.
«Sono arrivata in Italia a Milano nel 2007, in aereo – racconta – non ho affrontato il viaggio in mare, a molti come me accade così. Nel mio paese avevo avuto problemi seri con il presidente, che governava come un dittatore (Laurent Gbagbo, ndr), ero stata in carcere, stavo male e rischiavo di non sopravvivere. Mi consideravano pericolosa: laureata, oppositrice, determinata e poi anche donna. I miei fratelli, anche loro in pericolo, hanno fatto una scelta. Fra noi c’erano i soldi per far partire solo una persona e loro si sono sacrificati per me».

Soldi per pagare i trafficanti?
«Si. Da Abidjan (la capitale della Costa d’Avorio) al confine col Ghana dovevamo andare a piedi, attraverso le foreste, perché la strada era presidiata dai militari. Abbiamo camminato per una settimana e non potevo farlo da sola. Lì sono rimasta per un po’ in un campo profughi, ma avevo deciso di venire in Europa. Hanno pensato a tutto i trafficanti: mi hanno accompagnata e mi hanno procurato documenti falsi per prendere l’aereo ad Accra (capitale del Ghana). Io avevo anche un estratto di nascita in cui risultavo più anziana, mi vestivo in maniera tale da rischiare meno di subire violenze durante il viaggio. I trafficanti mi avevano anche garantito il biglietto per il treno da Milano a Roma, erano ben organizzati. Quando sono stata pronta per partire dal Ghana si sono ripresi i miei documenti falsi, che intendevano utilizzare per un’altra persona».

Sembra parlare di loro con un certo rispetto, se non gratitudine. E’ così?
«Io in quel momento rischiavo la vita e loro costituivano la mia unica soluzione: sono stati pagati per salvarmi. In fondo è un servizio, grazie a loro sono state salvate tante vite. Se non ci fossero stati come avremmo fatto? Anche loro corrono rischi e i documenti falsi sono costosi; il biglietto fino all’Italia costa 700 euro e poi c’è tutto il resto.
Non ci sono altri modi per fuggire. In fondo è come se avessi pagato un biglietto, forse più caro. In realtà non so neanche quanto sia costato tutto, perché ci hanno pensato i miei fratelli. Se i trafficanti ti salvano la vita dovrebbero forse anche pagare per farlo? Io credo che spesso li si condanni senza ragionare. Ultimamente sono venuta a conoscenza della vicenda di un profugo siriano, ferito nella fuga. Era ridotto male: perdeva urina dalla pancia e nel Paese che aveva raggiunto non poteva essere curato. Ha pagato 3000 euro per salvarsi, per poter essere operato in Italia, altrimenti sarebbe morto. Ha fatto il viaggio dalla Libia, su un gommone e in quelle condizioni».

E’ difficile, in Italia, spiegare chi sia un rifugiato?
«C’è una duplice difficoltà che sto imparando col mio lavoro. Da una parte chi arriva, soprattutto coloro che vengono dalle zone rurali, dai piccoli villaggi, non sanno come fare per avere protezione. Non sanno di poter chiedere asilo né quali siano le procedure necessarie. Dall’altra, se non fosse per il lavoro delle organizzazioni dei volontari, nessuno li informerebbe. E qui posso rispondere alla sua domanda: quando ero molto giovane nel mio Paese si stava in pace e noi eravamo uno dei paesi africani più avanzati. C’era la guerra in Liberia e, in poco tempo, sono arrivati oltre un milione di profughi. Ricordo bene che il  presidente di allora, quasi ogni giorno, dalla tv e dalla radio invitava la popolazione ad accogliere, ad aiutare chi scappava. I mezzi di comunicazione ci spiegavano chi era un rifugiato e perché era un nostro dovere sostenerlo.
Parlano di noi come del “terzo mondo”. Dopo quanto ho visto qui, questo non lo accetto. Io mi sono salvata anche grazie a quanto ho potuto imparare nel mio paese: sapevo di avere dei diritti e di poterli vedere soddisfatti».

E invece, quando è arrivata a Termini, cosa le è accaduto?
«Per due notti ho dormito, come tanti, nei pressi della stazione e ho cercato una persona che parlasse almeno francese o inglese. Stavo male e ho temuto seriamente di non farcela, volevo chiedere aiuto a qualcuno ma i bianchi non mi capivano e stavo crollando. Mi sentivo sola e priva di strumenti per reagire. Ma, a differenza di  tanti che ho incontrato, sono stata fortunata, ho trovato alcuni africani. Uno di loro mi ha spiegato cosa fare, mi ha portata alla Caritas e poi dai gesuiti del Centro Astalli, dove potevo mangiare, ma continuavo a stare male. Combattevo per vivere, avevo la febbre alta. Al centro mi hanno portata in ambulatorio, mi hanno curata e hanno avviato le pratiche per farmi ottenere protezione. Sono entrata in una loro struttura, la Casa di Giorgiala sera stessa. Finalmente avevo un tetto dove mi hanno curata e ho trovato chi capiva il francese. Ho dovuto fare accertamenti e subire interventi chirurgici urgenti ma mi sono rimessa rapidamente.
Da allora ho cominciato ad andare ogni giorno al Centro Astalli e, a un certo punto, i loro volontari mi hanno detto: «Ora devi iniziare una nuova vita, ti facciamo conoscere Monica». “Monica” era Monica Serrano del Laboratorio 53, lì ho subito capito di avere incontrato le persone giuste. Ho iniziato a seguire corsi di italiano e altre attività e, in poco tempo, mi sono sentita parte di un gruppo che stava diventando come una famiglia. Mi sentivo a casa.
Ogni cosa mi interessava: appena mi dicevano «Habiba, c’è questo…» io mi ci tuffavo, ho fatto anche un corso di video. Ora ho un fascicolo enorme di attestati conquistati. Nel gruppo veniva spesso un dottore che si è messo in contatto col Ministero degli Affari Esteri e, attraverso un dipartimento apposito, sono riuscita a far arrivare in Italia i miei titoli di studio e a vederli riconosciuti – per l’esattezza la mia laurea in scienze infermieristiche è stata riconosciuta dal Ministero degli Esteri ma non ancora da quello della Salute. Nel frattempo imparavo l’italiano: credo sia fondamentale parlare la lingua del paese che ti ospita. Conoscere la lingua è il presupposto per essere liberi».

Come si è posta rispetto al lavoro?
«Per molto tempo ho fatto la volontaria per il Centro Astalli. Andavo nelle scuole e nei licei di Roma e di tutto il Lazio a raccontare la mia storia, con una suora che si chiama Maria José. Una volta mi hanno chiamata anche in tv.
Poi sono entrata nel “Progetto Finestre”: un’idea, come indica il nome, nata per “guardare oltre”. Ho fatto volontariato al Laboratorio 53; ho creato una piccola associazione per la riconciliazione dei miei connazionali in Italia e per ricostruire i villaggi bombardati. Nel frattempo ho preso un master all’Università Roma 3 grazie alla Fondazione Montalcini, per aiutare le donne africane a studiare. Io stessa ho studiato mediazione culturale e metodologie dell’incontro nella politica. Mi sentivo stanca ma viva: lavoravo per 11 ore al giorno e dormivo al Centro Enea. Mi guadagnavo da vivere facendo le pulizie nelle case, ho seguito anche un ragazzo disabile e a volte restavo a dormire a casa loro.
Studiavo di notte e uscivo la mattina molto presto. Nuotavo per vedere la luce. Non volevo restare nel centro perché mi sentivo in grado di essere autonoma. Così ho trovato casa con un altro rifugiato, un ragazzo disabile che, grazie anche a Monica Serrano, era riuscito a farsi assumere ad un supermercato. Vivevamo vicino Roma, ad Acilia. Sono rimasta lì 2 anni. Io guadagnavo ma non avevo un contratto e soltanto grazie all’intermediazione del Cir (Consiglio Italiano per i Rifugiati) abbiamo avuto l’appartamento in affitto. Poi ho conosciuto quello che è diventato il mio compagno».

Ma le sue competenze non venivano considerate per lavorare?
«Mi avevano proposto di fare un tirocinio di 16 mesi, in parte con il Ministero degli Esteri e in parte con quello della Salute, ma dovevo pagare 400 euro ogni 6 mesi e smettere di lavorare, perché sarei stata impegnata a tempo pieno. Un dottore di Medici Contro la Tortura si era anche offerto di pagare al mio posto ma mi avevano assegnata a una clinica situata dall’altra parte della città. Ero indecisa. Poi, nel 2011, è esplosa l’Emergenza Nord Africa e la Cooperativa Domus Caritatis cercava con urgenza mediatori. Mi hanno presa perché parlavo sia lingue europee sia africane, ho iniziato a lavorare due giorni dopo e, passati i primi 3 mesi, mi hanno proposto un contratto a tempo indeterminato».

In cosa consiste il suo lavoro?
«Ho sempre molto da fare: la Cooperativa gestisce circa 40 centri fra Roma e provincia. Dal lunedì al mercoledì giro per le diverse strutture per risolvere i problemi che si presentano; il giovedì e il venerdì sono di turno allo sportello legale. Purtroppo ho poco tempo per il volontariato con il Laboratorio 53. Di fatto faccio la mediatrice e l’operatrice. Sono impegnata dalle 9 alle 18 con una pausa di un’ora. I nostri contratti sono diversificati per livelli: ora sono inquadrata come C1 e supero di poco i 1000 euro al mese. Quando svolgevo gli altri lavori guadagnavo anche di più ma mi hanno promesso, con il riconoscimento pieno dei titoli che ho acquisito, di poter divenire presto D1: un livello che mi garantirà un minimo di serenità. Ora vivo con il mio compagno a Roma, lui ha preso casa con un mutuo e io voglio almeno poter pagare le bollette delle utenze, perché non voglio pesare sulle sue spalle. Voglio poter guardare al futuro».

Lei ha avuto il pieno riconoscimento del diritto di asilo?
«Certo e anche in tempi relativamente rapidi. Quando sono stata ascoltata dalla Commissione territoriale neanche mi hanno dedicato troppo tempo. I miei fratelli avevano inviato una montagna di documentazione in cui si attestavano le persecuzioni a cui eravamo stati sottoposti io e la mia famiglia. Ho già chiesto anche la cittadinanza italiana – per i rifugiati sono sufficienti 5 anni di permanenza nel Paese – e mi hanno detto che in un paio di anni avrò una risposta. Ma ho pazienza».

Ci pensa mai a tornare in Costa D’Avorio?
«Mi manca il mio Paese. Quando è stato cacciato il dittatore volevo rinunciare a tutto e tornare a casa, ma i miei fratelli mi hanno convinta dicendo che la situazione non era ancora tranquilla. Il nuovo presidente, Alassane Ouattara, secondo me sta lavorando bene, molti ivoriani tornano e si stanno occupando di ricostruzione. Si sta lavorando dal punto di vista internazionale per veder anche garantita una stabilità necessaria, ma nutro ancora tanti dubbi.
Tanti anni fa il mio, come tanti altri paesi africani, è divenuto ufficialmente indipendente ma è soltanto cambiata la faccia del colonialismo. Dappertutto ci sono basi americane, francesi, inglesi e anche italiane. Le guerre scoppiano in continuazione e quando un governo si propone di fare quello che chiede il popolo comincia a rischiare. Da noi la Francia interviene continaumente. Io ho avuto una esperienza diretta: sono uscita dal carcere perché, allora, la Francia doveva recuperare la sua immagine e ha ottenuto la liberazione di una parte dei prigionieri politici. Si era venuto da poco a sapere delle fosse comuni e questo non deponeva bene. Sono stata portata, viste le mie condizioni di salute, in un centro ospedaliero della base militare Licorn, dove ho avuto modo di capire come tutto ruotava attorno ai voleri della Francia. Magari tornerò quando avrò la cittadinanza italiana e sarò più garantita ma io oggi sono una rifugiata, una che ha lasciato il proprio Paese perché non era libero».

Stefano Galieni