Africa

L’Eritrea, tanto per capire

Raffaele Masto - 24 Marzo 2015

330px-Eritrea_on_the_globe_(Africa_centered).svgLe notizie più esplicite dall’Eritrea si possono reperire dai luoghi più inconsueti. Per esempio da quel tratto di mare Mediterraneo che separa le coste del Sud da quelle del Nord, oppure in una città come Milano, dai Bastioni di Porta Venezia. Se vi passate in auto di sera tardi non potrete fare a meno di notare delle ombre scure, tra le panchine di pietra e gli alberi. Quelle ombre sono giovani eritrei fuggiti dal loro Paese e approdati in una città frettolosa e fredda come Milano: non hanno un luogo dove andare, non hanno un riparo e spesso, almeno i primi tempi, non hanno nemmeno di che nutrirsi.

Ecco, fino a che dall’Eritrea riceveremo notizie simili potremo immaginare che cosa vi avviene all’interno. Questo è uno dei pochi modi di reperire informazioni, non ci sono altri canali: l’Eritrea è un buco nero del quale non si sa niente, o quasi. Se non fosse per loro, i giovani che fuggono, che con la loro presenza – a volte anche con le loro parole e le loro storie  – sono testimonianze viventi.
Da queste e dalle poche fonti internazionali, che qualcosa riescono ad intercettare, sappiamo innanzitutto che l’Eritrea è un paese alla fame: i prodotti di prima necessità sono scarsi e razionati perché l’agricoltura, che potrebbe sfamare la popolazione, è praticamente paralizzata, non c’è più nessuno che lavori i campi. I giovani, infatti, sono tutti fuggiti o sono stati inquadrati in un onnivoro esercito nazionale che risucchia tutto e tutti, con ferme infinite giustificate da un perenne allarme nazionale che tiene il paese in una sorta di guerra perpetua con l’Etiopia, con Gibuti, con il Sudan e con l’Occidente tutto che, secondo la propaganda del regime, appoggia i nemici della nazione.

Per ingrossare le fila dell’esercito, in città come Asmara, Keren, Massawa, vengono fatti periodici rastrellamenti. Lo stato è alla ricerca dei giovani che si nascondono per evitare la leva obbligatoria e illimitata. Ormai, però, c’è così poco da “rastrellare” che i militari se la prendono con gli anziani, accusati di nascondere i ragazzi o di averli fatti fuggire fuori dal Paese. Spesso non esitano a imporre multe o ricatti alle famiglie che hanno giovani all’estero. E’ una crudeltà ancora più grave perché, con il razionamento e l’agricoltura improduttiva, la gente non ha più nulla nemmeno per nutrirsi.
I “frutti” dei rastrellamenti, poi, vengono inviati in campi militari remoti, di cui il più tristemente famoso è quello di Sawa, in una regione torrida, quasi invivibile, nel bassopiano tra Massawa e Assab. E’ qui che, secondo le testimonianze di chi è riuscito a scappare, accadono le più gravi violazioni dei diritti umani. Sono racconti più che credibili, dato che i giovani fanno di tutto per sfuggire ai rastrellamenti e alla “deportazione” in questo campo, dove sono rinchiusi ragazzi di ambo i sessi che non hanno nemmeno finito la scuola, e non la finiranno mai.

I portavoce e i diplomatici del regime, naturalmente, smentiscono tutto ma di fatto verificare è impossibile. Visitare l’Eritrea è molto difficile, quasi impraticabile persino per una missione delle Nazioni Unite. Ad esempio, i membri di una commissione che doveva indagare sulle violazioni dei diritti umani nel Paese non hanno nemmeno ricevuto l’autorizzazione a entrarvi. Così l’inchiesta è stata fatta intervistando quattrocento persone, tra membri della diaspora, giovani fuggiaschi, giornalisti e intellettuali.
Il risultato è stato drammatico: “La maggior parte degli Eritrei non ha speranza per il suo futuro. La detenzione è un’esperienza molto comune, che riguarda un gran numero di individui, donne, uomini, ragazzi e bambini”, ha detto Mike Smith, il responsabile dell’inchiesta che è stata presentata davanti al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite.

Nel rapporto si legge ancora che l’Eritrea “ha usato le tensioni con la vicina Etiopia come pretesto per ignorare il rispetto dei diritti umani e per sottoporre al controllo dei militari ogni aspetto della vita quotidiana dei cittadini”. Secondo Mike Smith, i funzionari eritrei hanno creato un sistema giuridico definito “né guerra né pace” per limitare le libertà di base di espressione, di movimento, di organizzazione e di culto.
Nonostante tutto questo la diplomazia internazionale, le cancellerie europee e occidentali, i media, parlano pochissimo di questo Paese che arriva nelle nostre case quando si scopre, per l’ennesima volta, che i migranti dell’ultima strage in mare fuggivano da questo “buco nero” dell’informazione e delle nostre coscienze.

Raffaele Masto