Venezia

Biennale, il Kenya è cinese e un po’ italiano

Valentina Mmaka - 12 Aprile 2015
Shame in Venice 2, di Michael Soli

Shame in Venice 2, di Michael Soli

Creating Identities si intitola il padiglione keniota presente alla prossima  Biennale di Venezia (la 56esima, quella di cui finora si è parlato soprattutto perché organizzata per la prima volta da un commissario di origine africana, Okwui Enwezor). Il titolo suggerisce un ampio spettro di interpretazioni. Potrebbe alludere, per esempio, all’emergere di uno scenario di artisti in grado di esprimere le diverse esperienze identitarie del Kenya oppure panafricane. La realtà è diversa, e chi si aspetti di trovare, al Padiglione Kenya, opere di artisti kenioti, resterà deluso.
Troverà piuttosto diverse anomalie. La prima  sta nei curatori. Sandro Orlandi, Paola Poponi e il curatore aggiunto Ding Xuefeng, non hanno relazioni con l’arte contemporana del Kenya, nè particolare expertise sulla produzione artistica del paese che sono stati chiamati a “curare”.
La seconda, negli artisti: Yvonne Apiyo Braendle-Amolo, Qin Feng, Shi Jinsong, Armando Tanzini, Li Zhanyang, Lan Zheng Hui, Li Gang, Double Fly Art Center. Un’unica keniota, Yvonne Apiyo Breandle Amolo, in mezzo a sei artisti cinesi e a un italiano. Come mai?

Era già avvenuto qualcosa di simile nell’edizione del 2013, quando a rappresentare il Paese africano c’erano otto artisti cinesi, un italiano (ancora Tanzini), un italo -brasiliano e solo due kenioti. In quell’occasione, pare addirittura che gli artisti kenyoti non sapessero nemmeno che il Kenya avesse un padiglione a Venezia. Si potrebbe obiettare che, in fondo, trattandosi di arte, non conti tanto il passaporto quanto lo spirito e i legami con il luogo. Questo avrebbe una ragione se i prescelti avessero comunque un legame con il Paese che sono chiamati a rappresentare e se questo Stato li riconoscesse come validi rappresentanti della propria scena artistica contemporanea. Ma, esaminando i fatti, nessuno dei performer cinesi vive né lavora in Kenya e forse nemmeno ci è mai stato, così pure il curatore aggiunto.
Tanzini, invece, merita un capiolo a parte. E’ vero, vive in Kenya da tanti anni. Per la precisione a Malindi, dove ha iniziato a fare l’imprenditore aprendo alberghi e ristoranti e dedicandosi alla realizzazione di opere di pittura e scultura classificabili come arte tribale: sculture di animali, donne nude e infinite riproduzioni del continente africano volte a ribadire il suo  “amore per l’Africa”. Ma, a parte qualche apparizione all’Istituto Italiano di Cultura e all’Ambasciata italiana di Nairobi,  non pare essere una personalità riconosciuta dagli altri artisti del Paese, non risulta esserci alcun legame con loro.
L’artista-imprenditore italiano rappresenta esattamente il Kenya da dépliant: belle spiagge, safari, donne statuarie in abiti tradizionali, zanne d’elefante all’ingresso degli alberghi di lusso. L’Africa di Tanzini è quella che echeggia dalle sue parole confezionate ad hoc di retorica neo coloniale: «Amo l’Africa», scrive. «L’amo per le sue qualità infinite e per i suoi difetti.L’amo perché è innocente e pura, l’amo come amo i miei vicini, ricchi e poveri – inquieti – sono i segnali. Perché non proviamo ad aiutarli per rendere reale l’immensa ricchezza della terra e delle loro anime? Non come missionari, ma come brillanti e sinceri amministratori, pronti a dare e a ricevere»,

Non appena si è diffusa la notizia che il Padiglione Kenya alla Biennale 2015 non aveva che un artista del Kenya, intellettuali e artisti dal Paese e dalla diaspora hanno letteralmente “occupato” la rete, dai social network ai blog, alle testate giornalistiche, con commenti di sgomento, delusione, rabbia. Alcuni di loro, tra cui Binyavanga Wainaina e Michael Soi, non si sono limitati a commentare. Sono andati oltre, chiedendo di incontrare il Segretario di Gabinetto per lo Sport la Cultura e l’Arte, Hassan Waro Arero, appuntamento che doveva tenersi il 20 marzo scorso. Un incontro che avrebbe dovuto quanto meno chiarire la posizione istituzionale del Kenya sulla grave assenza di propri artisti al Padiglione della Biennale.
Il giorno dell’appuntamento, una volta in loco, il gruppo di artisti viene informato che il ministro è in Moschea a pregare e che arriverà non appena avrà finito. Il Segretario di Gabinetto non è mai arrivato e il gruppo ha dovuto arrendersi all’evidenza di un silenzio che parla più delle parole. Ancora oggi nessun segnale istituzionale.
Michael Soi ha prontamente realizzato una doppietta di dipinti satirici sulla vicenda. In concomitanza è stata messa online petizione indirizzata ad Hassan Waro Arero per chiedere il ritiro del Padiglione keniota dalla Biennale di quest’anno e l’impegno della Biennale stessa a realizzare un vero stand rappresentativo del Paese nell’edizione del 2017.

La vicenda merita una duplice analisi. La prima riguarda il ruolo dei responsabili della Biennale, la seconda quello delle istituzioni keniote.
Con quale criterio vengono nominati i curatori di un padiglione? Come mai la cura di quello keniota è stata affidata a persone che non hanno alcun legame o affinità con l’arte contemporanea del Paese? Come mai il curatore aggiunto è cinese? Come mai ci sono sei artisti cinesi e un italiano a rappresentare il Kenya? Quali sono i costi che comporta, per un artista, esibire alla Biennale? Perché proprio la Cina e non un altro paese africano, ad esempio?
Sono domande che in molti casi non hanno una risposta coerente, altre aprono a uno spettro ampio di deduzioni e allusioni, come ad esempio il ruolo della Cina nell’economia del Kenya. Che questa anomala, inquietante presenza cinese nel padiglione keniota sia il segnale di un nuovo imperialismo economico, targato Cina? Che il Kenya, a fronte di un massiccio investimento della Cina e della prospettiva di diventare il primo esportatore di petrolio dell’Africa Orientale entro il prossimo anno (la Cina sarebbe il primo cliente) abbia svenduto il proprio spazio a scapito dell’arte e della cultura del proprio paese? Sarebbe possibile una situazione inversa? La Cina permetterebbe di essere rappresentata da artisti kenioti?
Che la Biennale sia stata, per il Kenya, un’opportunità per incassare denaro che sfortunatamente non verrà mai investito nei suoi artisti? Che l’offesa all’arte abbia costituito un facile viadotto per stringere alleanze che niente hanno a che vedere con la creatività artistica?

La Biennale targata Enwezor vede numerosi artisti africani chiamati a esporre nella mostra principale (tra questi anche la keniota Wangechi Mutu) e sfuggono le dinamiche che hanno portato all’esclusione dei kenioti dal proprio padiglione. «La vita è noiosa se tutte le grandi storie sono su europei o caucasici», dice Enwezor. «E’ completamente stupido, Il mondo è più grande». Ma il senso delle sue parole viene evidentemente disatteso nel momento in cui il Kenya è ridotto ad essere un’appendice della Cina.
Eppure il panorama artistico contemporaneo keniota è ricco e conta nomi straordinari in grado di rappresentare a pieno titolo il paese in una vetrina internazionale come quella di Venezia. Artisti come Michael Soi, Thom Ogonga, Peterson Kanwath, Naomi Wanjiku Gakunga Paul Onditi, Richard Kimathi, Jimmy Ogonga, Jim Chuchu, Patrik Mukabi, per citarne solo alcuni, avrebbero avuto le carte in regola per andare a Venezia.

Valentina Mmaka
www.valentinammaka.com