Questioni aperte

Giù le mani dai bambini (neri)

Martina Zanchi - 24 Aprile 2015

girotondoE’ possibile fare solidarietà rispettando la dignità di coloro che si vorrebbero aiutare? Fino a che punto uno scopo nobile può giustificare – se può davvero farlo – l’esposizione, a tratti patetica, della sofferenza e del dolore? La Rete della Diaspora Africana Nera in Italia (REDANI) ha le idee ben chiare in merito. Proprio in questi giorni sono partite le operazioni che dovrebbero portare, entro l’estate, al lancio di una campagna nazionale che, attraverso un video che sarà realizzato a Roma, mira a sensibilizzare la popolazione sull’utilizzo dell’immagine delle donne e dei bambini, in particolare di quelli di pelle nera, da parte delle grandi Onlus che si propongono di raccogliere fondi per le più svariate “buone cause”: dall’adozione a distanza fino alla lotta contro la malnutrizione. I dettagli dell’iniziativa sono ancora segretissimi, ma sappiamo che l’obiettivo è quello di arrivare a una raccolta firme per chiedere al Parlamento di superare la Carta di Treviso – un carta deontologica interna alla categoria dei giornalisti che tutela i minori nei (e dai) media – realizzando una norma nazionale che impedisca un uso dell’immagine dei bambini che possa lederne lo sviluppo psico-sociale.

Vale la pena ricordare che cosa recita la Carta di Treviso, un protocollo firmato nel 1990 da Ordine dei Giornalisti e FNSI, in merito alla tutela dei bambini nella cronaca. “Nel caso di minori malati, feriti, svantaggiati o in difficoltà – si legge – occorre porre particolare attenzione e sensibilità nella diffusione delle immagini e delle vicende al fine di evitare che, in nome di un sentimento pietoso, si arrivi ad un sensazionalismo che finisce per divenire sfruttamento della persona”. E’ una norma che riguarda i giornalisti, appunto. Ma per quanto riguarda gli spot e le campagne televisive? Il dubbio è lecito, soprattutto viste le campagne – anche recenti – lanciate da grandi organizzazioni di solidarietà in cui non si esita a utilizzare immagini, anche piuttosto crude, che ritraggono minori in condizioni di malnutrizione, malattia e sofferenza. Che queste iniziative siano veramente efficaci per raccogliere soldi, poi, è tutto da dimostrare.

«Non credo che le madri vorrebbero mostrare certe immagini dei loro figli», riflette Fortuna Ekutsu, della Rete della Diaspora Africana Nera in Italia, anche se sembra che alcune di queste organizzazioni si siano giustificate dicendo di aver ottenuto il permesso dai genitori dei piccoli (sarebbe bene, se così fosse, capire in quali condizioni è stato dato il consenso). Non è la prima volta che REDANI si mobilita per far sì che un certo utilizzo dell’immagine dei bambini neri – ritenuto irrispettoso – cessi, ma questa volta i volontari hanno deciso di fare le cose in grande. Per il video di promozione della campagna – auto organizzata e autofinanziata – la Rete è riuscita a ottenere, tra l’altro, la collaborazione volontaria del regista etiope Dagmawi Ymer.

La questione non tocca solo i bambini ripresi dalle telecamere. Secondo Fortuna Ekutsu è un tema che riguarda anche i piccoli italiani dalla pelle nera, come ad esempio i figli di coppie miste. Cosa potrebbero pensare di se stessi e delle proprie origini, notando che nella gran parte delle campagne contro la povertà e il disagio socio-sanitario vengono immortalati dei coetanei che hanno il loro stesso colore di pelle? In questa scelta, secondo Ekutsu, convivono motivazioni culturali e altre puramente di “marketing”. «Spesso anche chi lavora in quell’ambiente fatica a liberarsi degli stereotipi sull’Africa povera e arretrata – sostiene – ma c’è anche un fatto evidente: il “nero” vende».
Seppure in un’altra direzione, si può dire che questa non è la prima iniziativa che, in ambito internazionale, è stata attivata per combattere gli stereotipi che, molto spesso, vengono associati alle persone di origine africana. Vi segnaliamo questa interessante campagna (The Real Africa : Fight The Stereotype) messa in atto da alcuni studenti neri dell’Università di Ithaca (NY), finalizzata proprio a contrastare i luoghi comuni affibbiati all’Africa e ai suoi abitanti tramite foto efficaci e dati reali.

Eppure – nonostante molte organizzazioni, soprattutto le più grandi, continuino ad adottarla – quella delle immagini strazianti e del pianto disperato dei bambini non è (più) l’unica strategia che si può usare per portare avanti un fine giusto. Lo ha dimostrato recentemente Medici Senza Frontiere con la campagna #Milionidipassi (noi ve ne abbiamo parlato qui). Nel promuovere le donazioni, ha raccontato in modo efficace e diretto il dramma dei profughi – uomini, donne e bambini in fuga da violenze e povertà – utilizzando un simbolo apparentemente semplice ma di indubbia efficacia: le scarpe.

Non manca chi, senza il bisogno di una norma nazionale, se ne è reso conto da tempo. A dimostrazione che, forse, non dovrebbe essere necessario che intervenga la legge a censurare una determinata policy in fatto di solidarietà. Per evitarla basterebbe il buon senso. Esemplari sono le  Linee Guida per l’Utilizzo di Immagini di Bambini e Giovani con cui il Cesvi ha reso pubblica la propria politica sul tema, di cui vi riportiamo un estratto: «Le strategie comunicative – si legge – devono considerare che il bambino, anche quando è preso a simbolo di un problema o di una causa, non è mai un mezzo e che il suo superiore interesse non è subordinabile nemmeno alla difesa delle cause dell’infanzia e alla promozione dei diritti dell’infanzia».
D’altro canto, con gli infiniti mezzi grafici e le grandi professionalità a disposizione dei media, in fin dei conti quello del pietismo è un mezzo davvero obsoleto per invogliare la gente a donare i propri soldi per una buona causa. Con uno sforzo di fantasia, di certo è possibile fare di meglio.

Martina Zanchi