Naufragi

Morire in mare, uno studio sulle vittime

Paolo Cuttitta - 24 Aprile 2015

mediterraneo1Nei giorni in cui gli ennesimi, immani disastri hanno riportato il tema della morte alle frontiere all’attenzione dell’opinione pubblica, la Vrije Universiteit di Amsterdam ha portato a termine un censimento delle persone morte durante il tentativo di raggiungere l’Europa e registrate presso gli uffici dello stato civile o presso i registri cimiteriali in Italia, Spagna, Grecia, Malta e Gibilterra.
Tra maggio 2014 e gennaio 2015 undici ricercatori – coordinati da Tamara Last sotto la supervisione di Thomas Spijkerboer – hanno esaminato oltre due milioni di certificati di morte nei registri di 559 diverse località dei suddetti Paesi (mentre gli uffici di altre 35 località, pari al 6% del totale, hanno negato loro l’accesso agli archivi).
I risultati saranno presentati a metà maggio. Da quel giorno la banca dati con tutte le informazioni raccolte sarà liberamente accessibile online, accompagnata da una visualizzazione grafica che renderà più facilmente leggibili i principali risultati della ricerca.

Il significato più importante del lavoro non risiede tanto nel dato statistico relativo al numero totale di morti di frontiera registrati nei diversi Paesi. Tale dato, infatti, è evidentemente parziale rispetto al numero totale dei morti nel Mediterraneo, perché non comprende né i decessi avvenuti e/o registrati sull’altra sponda (nei paesi dai quali le persone si sono messe in viaggio per raggiungere l’Europa), né i dispersi (il cui numero – è il caso di ricordarlo – si stima essere di parecchio superiore a quello dei corpi rinvenuti).
Tra gli elementi più significativi della ricerca va menzionato in primo luogo il fatto che essa si è basata su una metodologia chiara e omogenea, che fa riferimento non a fonti giornalistiche ma a dati istituzionali. Le pur importantissime informazioni raccolte sinora dalle banche dati di United Against Racism e di Fortress Europe sono, invece, inevitabilmente incomplete, approssimative e disomogenee perché tratte da fonti giornalistiche o da canali più o meno informali.
Inoltre, i dati raccolti comprendono (almeno nei casi in cui le autorità hanno potuto e voluto raccoglierle e registrarle) informazioni preziose per restituire un’identità e una storia alle persone defunte, che in moltissimi casi risultano essere non identificate. Tutte le informazioni che i ricercatori hanno potuto raccogliere negli atti ufficiali esaminati (le variabili più importanti sono: nome, età, genere e origine del defunto; luogo di morte, luogo di ritrovamento, luogo di registrazione, luogo di sepoltura; causa della morte e altri dettagli sull’incidente) permettono di tracciare non solo una geografia della morte alle frontiere ma anche un ritratto collettivo (e innumerevoli ritratti individuali) dei caduti di questa guerra che continua a essere combattuta sottotraccia e sotto silenzio, salvo tornare a fare notizia e provocare commozione nei casi più eclatanti.
Inoltre i ricercatori hanno raccolto informazioni sui differenti approcci burocratici alla morte adottati dalle diverse autorità dei paesi in esame. Il loro lavoro fornisce quindi anche un quadro del modo con il quale le diverse autorità trattano la morte in generale e le morti di frontiera in particolare. Peraltro la ricerca sul campo ha anche evidenziato che tali procedure – quelle normalmente previste in caso di morte nei diversi paesi – vengono a volte disattese quando si tratta di morti di frontiera, e che perciò i migranti devono in certi casi subire forme particolari di discriminazione anche da morti.

Immergendosi per quasi un anno in quella parte della burocrazia dell’Europa mediterranea che interagisce con la morte di frontiera, i ricercatori hanno anche interagito, essi stessi, con realtà di diverso tipo: dalle imprese di pompe funebri (con i loro non trascurabili interessi specifici) ai privati cittadini che curano di loro iniziativa le tombe di chi è costretto a riposare lontano dai propri cari.
Benché vi siano alcuni aspetti di privacy ancora da chiarire (nella versione del database che andrà online tutti i profili individuali saranno anonimizzati), è auspicabile che il lavoro fatto possa servire per facilitare le identificazioni di alcuni dei tanti morti ancora senza nome e per consentire ai familiari di alcune delle vittime di avere finalmente certezza sul destino dei propri cari. Ciò potrebbe avvenire anche attraverso una collaborazione con il programma “Family Links Network” della Croce Rossa.
Gli autori del censimento, inoltre, auspicano di reperire fondi per svolgere un’analoga ricerca nei paesi di partenza, dall’altra parte del Mediterraneo.
Essi, infine, chiedono l’istituzione di un osservatorio europeo sui morti di frontiera, sotto l’egida del Consiglio d’Europa, che si occupi di raccogliere i dati in tutti i paesi coinvolti. Su tale punto è facile prevedere resistenze. Il governo tedesco, rispondendo a un’interrogazione parlamentare, ha affermato un anno fa che “non c’è alcun bisogno di una sistematica rilevazione” dei dati riguardanti i morti alle frontiere. Solo apparentemente più possibilista il Ministro dell’Interno italiano Alfano, che nel settembre scorso, anch’egli in risposta a un’interrogazione alla Camera, non escludeva l’istituzione di una banca dati ufficiale, ma riteneva “difficile ipotizzarne la condivisione con organismi di volontariato sociale”, e poi lasciava cadere la proposta nell’oblio.

Di certo bisognerà evitare che anche il censimento realizzato dalla Vrije Universiteit finisca per essere strumentalizzato dal confine “umanitario”, dalla retorica sviluppata negli ultimi quindici anni dalle istituzioni statali e comunitarie. Tale retorica si è appropriata del tema della morte e l’ha utilizzato, alla rovescia, per legittimare il sistema di controllo delle frontiere da essi creato e perfezionato. Chi ha costruito l’attuale regime migratorio internazionale rifiuta infatti ogni responsabilità per gli effetti nefasti che esso produce, rovesciandola su altri: i fornitori di servizi di viaggio non autorizzati (accomunati tutti, indistintamente, nella figura criminale del trafficante), colpevoli di mandare al massacro i propri clienti pur di gonfiare i propri portafogli. La lotta contro gli spietati trafficanti diventa così la parola d’ordine per giustificare il regime di frontiera, mentre quest’ultimo viene riconfezionato come sistema per salvare vite umane (anche grazie a operazioni come Mare Nostrum). Le parole pronunciate da Renzi il 19 aprile in occasione dell’ultima strage sono eloquenti: “Il punto chiave è bloccare il traffico degli esseri umani”, e “tutti i nostri sforzi sono diretti a individuare lo scafista che ha condotto la nave”. Il punto chiave, invece, è permettere alle persone di viaggiare senza dovere ricorrere ai servizi dei trafficanti e senza dovere salire in novecento su una barca di venti metri.

Mentre bisognerà evitarne ogni strumentalizzazione, la ricerca dell’università olandese andrà valorizzata, al contrario, in opposizione alla logica che, da un lato, esalta il ruolo salvifico delle istituzioni (nascondendone quello più inumano e violento), e, dall’altro, mostra i migranti come persone solo quando e nella misura in cui le loro vite sono in pericolo, e per il resto li oscura, anonimizzandoli o presentandoli come vittime passive del crimine organizzato. Restituire nomi ai corpi, contenuto e senso alle storie individuali e collettive, e ricordare che tutto ciò accade non solo e non tanto per la malvagità dei trafficanti e per l’imperdonabile imprudenza di chi si mette in viaggio, ma soprattutto per l’assurdità di politiche migratorie che impongono di rischiare la vita a chi voglia raggiungere un determinato territorio pur non possedendo, per pura sfortuna, il passaporto giusto: riuscire in questo sarebbe già un risultato apprezzabile.

Paolo Cuttitta