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La memoria armena

- 24 Aprile 2015

Layout 1Il termine in lingua armena è Medz Yeghern (Grande Crimine) e serve a ricordare uno dei genocidi che hanno funestato il secolo scorso, rimosso per troppo tempo per equilibri politici. Una storia complessa che vede il suo apice nel 1915. Difficile ancora oggi conoscere il numero delle persone uccise nei pogrom o morte nelle deportazioni (certamente oltre il milione), difficile anche perché ancora le fonti non convergono. In alcuni paesi europei, come la Francia, il negazionismo verso tale crimine è considerato reato; in altri, come la Turchia, è vietato anche parlarne. Lo scalpore destato recentemente dal pontefice e la crisi diplomatica che ne è susseguita, sono uno dei tanti segnali della difficoltà che ancora desta approcciarsi a questa vicenda.

Gli armeni ricordano il genocidio in un loro “giorno della memoria”, il 24 aprile, e proprio due giorni prima è stata inaugurata a Roma, presso la Galleria del Cembalo (a Palazzo Borghese), una mostra fotografica sul tema realizzata dalla fotografa statunitense Kathryn Cook, dal titolo La memoria degli alberi. L’intento, nel centenario, è quello di proporre uno sguardo contemporaneamente poetico e documentaristico del genocidio, il primo del ventesimo secolo.
Un paziente lavoro di ricerca durato sette anni per ritrovare le tracce di un mondo che semplicemente non c’è più, cercando i fili di una memoria frammentata, ascoltando le voci degli armeni e dei turchi incontrati in Armenia, Turchia, Libano, Siria, Israele e Francia. Era difficile districarsi fra i tanti detto e non detto che riaffioravano e l’autrice ha scelto di rappresentare il male e la sofferenza dando spazio a simboli che si ripetono. Il titolo scelto si riferisce ad un villaggio turco, Agacli – il cui nome significa appunto “il posto degli alberi” – situato nella Turchia orientale. Il villaggio è divenuto la metafora del suo percorso artistico: abitato prima del genocidio soprattutto da armeni, oggi è a maggioranza kurda. E sono proprio i kurdi, un tempo considerati nemici e oppressori, che hanno fatto rinascere la tradizione della tessitura della seta così come veniva praticata dagli armeni.

Nel presentare la sua mostra, in cui si alternano il bianco e nero al colore, Kathryn Cook ha scritto: «Gli alberi di Gelso fanno la guardia, nonostante il passaggio del tempo ad Ağaçlı, formando una macchia verde nel polveroso terreno dell’Anatolia, nutriti dalla sorgente che scende a cascata dalla valle sovrastante. Rami estesi come in una dichiarazione, le foglie nutrono un universo, chiuse da un filo. La seta, tessuta da grossi vermi su queste foglie risiedono sul pavimento delle case del villaggio e annidati nei giardini. Qui, ogni albero assorbe la pioggia e il vento, il sole e la tristezza; spinge le sue radici nella profondità del suolo di Ağaçlı e sono testimoni. I segreti dei secoli sono ombre sotto i grossi rami. Ma non ci diranno in modo semplice cosa è successo qui, o lì. Restano immobili, quiescenti, tornando alla storia solo quando appellati». L’autrice, con questo lavoro, ha in fonfo risposto a una domanda di difficile soluzione: come fotografare quello che non c’è più e si è cercato di cancellare?
La mostra resterà aperta ai visitatori fino al 27 giugno.