Arbëreshë

Peppa Marriti Band, tra rock e “Lule lule”

Francesco Ferrari - 24 Aprile 2015

live_2Shën Sofia, Santa Sofia d’Epiro. Un nome che rimanda ad un altrove al di là dell’Adriatico; a una regione compresa tra la Grecia nord-occidentale e l’Albania meridionale; a un oriente bizantino che, all’altezza del secolo IV, è venuto a radicare le sue memorie tra queste colline.
Radici forti e profonde, come quelle degli ulivi che attorniano il piccolo centro del cosentino, dove da più di vent’anni la Peppa Marriti Band porta avanti la propria personale sfida all’erosione progressiva che sta cancellando l’identità arbëreshë. Colpa anche di quell’arricciarsi della tradizione su se stessa che troppo spesso appesantisce di un senso di fissità museale ogni discorso sulla cultura albanofona d’Italia. Aprirla al presente, darle uno slancio nuovo attraverso la mescolanza di linguaggi e di un’inedita commistione tra rock e vjershe – le antiche rapsodie liriche – è quanto invece fa il gruppo sofiota da ormai più di vent’anni.
Formatosi nel 1991, la band vanta oggi due album all’attivo, Rockarbëresh e Këndo, mentre un terzo è atteso per l’estate; una partecipazione all’Arezzo Wave, concerti in tutta Italia, Albania e Macedonia; apparizioni in programmi RAI come Tg3 Levante o La storia siamo noi e, ancora, un documentario diretto da Salvo Cuccia.

In un accogliente bar al centro del paese, Angelo Conte detto Bobo, voce del gruppo, mi racconta come nasce questo loro apparentemente azzardato mix, precisando innanzitutto che “il termine rock vuol dire anche rottura, ribellione con la tradizione, con il passato, per aprire una nuova pagina”.
Una nuova pagina. l’impressione di molti, in effetti, compreso di chi scrive, è che il passato si trascini nel presente, senza tuttavia incidere nel presente; prezioso, ma come può esserlo un cimelio o una moneta fuori corso per un appassionato di numismatica.
Ridare valore attuale a questo passato sembra essere dunque l’urgenza che anima una ormai ventennale attività artistica la quale affida alla musica il sogno, e forse l’utopia, di tramandare, rinnovandola, una cultura in via d’estinzione; sebbene non manchi la consapevolezza che la sua scomparsa sia un evento con cui, forse tra non molto, ci troveremo a dover fare i conti poiché mi dice Bobo, semplicemente “come tutte le cose ha un inizio e una fine”. Tuttavia, si legge sul loro sito web una dichiarazione d’intenti dai toni tutt’ altro che rassegnati : “il fine del gruppo è quello di tutelare, attraverso la musica rock, la lingua e la cultura Italo-Albanesi presenti nel Sud Italia da più di cinque secoli”.
Questa progettualità si affina e matura però soltanto col tempo. Bisogna infatti dire che all’origine c’è soltanto – fosse poco! – la passione per la musica, soprattutto il rock di fine anni Ottanta, e l’amore per la propria lingua; non stupisce perciò che la fusione avvenga naturalmente e in fondo un po’ per gioco.

Galeotto fu un campeggio sul Pollino dove, attorno a un improvvisato certamen, quasi come avviene nell’hip hop con le gare di freestyle ma a suon di chitarra e a colpi di vjersh, comincia a prendere forma, seppure in maniera embrionale, l’identità futura della band. Proto-tipo di questa mescolanza di generi e di linguaggi, è la versione rock-blues di Lule lule (ora contenuta in Këndo), canzone d’amore ostacolato, ma anche canzone identitaria essendo forse il più famoso canto d’Arberia, che il gruppo improvvisava come omaggio ironico alle proprie origini.
“Nelle serate çë bëjm in xhiru për Shën Sofin, bëjm queste canzoni rock, da David Bowie a Bruce Springsteen, e mbrënda spesso i vajim Lue lule” (Nelle serate in giro per Santa Sofia suonavamo spesso queste canzoni rock, da David Bowie a Bruce Springsteen, e dentro spesso ci mettevamo Lule lule). Ora, può apparire straniante il fatto che ad un attitudine radicale in fatto di musica, che predilige il punk dei Clash o le sonorità ruvide del rock americano, possa accompagnarsi un’inclinazione al canto popolare, ma per chi ha esperienza di questi luoghi non c’è nulla di più naturale. Piuttosto c’è da chiedersi: è davvero una rottura con il passato e con le tradizioni, che si espone – come è accaduto – allo sguardo censorio e accigliato dei puristi, o si tratta piuttosto di un dialogo tra passato e presente, della contaminazione, inevitabile e feconda, tra due mondi?

“Man mano ci siamo resi conto – mi spiega Bobo – che non era tanto una rottura col passato ma era una reinterpretazione della tradizione. Abbiamo cioè interpretato dei testi arcaici in un contesto musicale diverso. E comunque non abbiamo stravolto niente”. Sottoposto dallo studioso Antonio Gattabria all’ascolto delle registrazioni dello stesso canto risalenti agli anni ’30 o ’40, Angelo mi racconta, infatti, la sua sorpresa nello scoprire quanto questo fosse affatto identico alla struttura del vjersh tradizionale. Esclusivamente vocalico e privo di accompagnamento, poco o nulla questo aveva che fare con il ritmo cadenzato e melodico con il quale si è fatto conoscere alle generazioni successive, e grazie al quale è rientrato da un ingresso secondario, in quella che chiamiamo “tradizione”.
É in questo senso che riscoprire, riscrivere, rinnovare, ha nell’esperienza del gruppo uno slancio vitale che riporta il passato a farsi vivo nel presente. E non solo attraverso le peculiarità espressive che danno alla Peppa Marriti un’identità sui generis all’interno del panorama musicale italiano – condivisa dai loro sodali della Spasulati Band (sempre sofioti, ma fanno reggae) – quanto più in profondo, per quello sguardo capace di abbracciare un orizzonte plurale che comprende l’arbëreshë, l’italiano e il dialetto calabrese, senza escludere, talvolta, fugaci incursioni nell’inglese.

L’orizzonte, insomma, comtemplato da una coscienza meticcia che mescola lingue e suoni, che ai riff potenti delle chitarre, alterna ritmi mediterranei, echi di tarantelle e violini a rievocare sonorità balcaniche. Mentre i testi accompagnano ad una scrittura originale, il riutilizzo di poesie o canzoni già esistenti: a volte lasciandole tali e quali, altre volte riadattandoli, ma sempre avendo per riferimento un patrimonio collettivo di cui si dispone con un rispetto e un pudore lontani dalla voracità predatoria con cui si spesso si artiglia il popolare per farne marketing.
“Noi quando andiamo a depositare queste canzoni… non sono nostre, sono popolari. Potremmo depositare gli arrangiamenti, ma neanche lo facciamo perchè alla fine tu puoi depositare tutto quello che vuoi ma dopo 150 anni la musica è di tutti”.
Si attinge, quindi, a un serbatoio comune per reimmettere in un serbatoio comune di motivi e di suggestioni che compongono un immaginario condiviso. Condivisione e valorizzazione della differenza culturale, della mezcla identitaria e musicale, è quanto appunto definisce la poetica di una band che con ostinazione rivolge il suo messaggio al futuro.
“Siamo per l’integrazione non siamo integralisti: se mettiamo nei nostri concerti la bandiera albanese è solo per ricordarci chi siamo e per ricordare che, se l’Italia ha un futuro, questo è fatto di tante piccole situazioni che vivono in pace.”
Ecco, una volta tanto l’identità – come diceva Borges a proposito di un’emozione collettiva – può non essere ignobile. Rrini mirë!

Francesco Ferrari