Africa

Sudan, vince il dittatore Bashir

- 11 Maggio 2015

Dopo quattro giorni di votazioni, il 28 aprile, con un’affluenza che non è andata oltre il 46% e la denuncia di brogli di due candidati indipendenti, il capo di Stato in carica Omar Hassan al-Bashir, classe 1944, è stato riconfermato – con un consenso ‘bulgaro’: il 94% delle preferenze – come presidente del Sudan. Le elezioni potevano essere le prime davvero multipartitiche, dopo il referendum che aveva determinato l’indipendenza del Sud cristiano dal Nord musulmano. I seggi sono stati pressoché disertati dagli 11 milioni di elettori che si erano registrati. L’opposizione più solida aveva deciso di boicottare le elezioni in quanto consapevole dell’impossibilità di un confronto reale con il padre padrone del Sudan che, giunto al potere con un colpo di Stato nel 1989, anche se incruento, di fatto ha fatto sinora il bello e il cattivo tempo.

A nulla è valsa la condanna dei tribunali internazionali a seguito della guerra contro l’attuale Sud-Sudan, l’ex Darfur, e a nulla i continui moniti verso un governo che applica integralmente la Shari’a e che è stato a lungo considerato come sostenitore di Al Qaeda. Le organizzazioni internazionali che hanno monitorato il voto hanno evidenziato che è stato garantito il pieno successo al National Congress Party. Gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Norvegia, con una nota congiunta, hanno definito ‘fallimentare’ il tentativo del Sudan di creare: «Un libero, equo e favorevole ambiente per le elezioni – concludendo che – l’esito finale non può essere considerato un’espressione credibile della volontà popolare». Sulla stessa linea l’Unione Europea che, attraverso l’Alto rappresentante per la politica estera Federica Mogherini, ha evidenziato: «L’incapacità del governo sudanese di avviare, un anno dopo averlo annunciato, un autentico dialogo nazionale».

Per Bruxelles questo voto-farsa è: «Una battuta d’arresto per il benessere del popolo del Sudan». Affermazioni che cozzano molto con quello che poi i paesi europei stanno realizzando concretamente. Il Processo di Khartoum (capitale del Sudan) concretizzatosi il 28 novembre scorso a Roma, stabilisce un percorso di cooperazione con gli Stati dell’area per arginare il numero di persone che tentano di raggiungere l’Europa, in fuga dalle guerre. Il territorio sudanese è necessario al passaggio per chi giunge dal Corno D’Africa e da alcuni Paesi dell’Africa Sub-sahariana, per poi transitare verso la Libia. Se il confinante Niger sembra si sia già reso disponibile ad ospitare campi di trattenimento per i profughi, lo stesso tentativo si sta conducendo con le autorità sudanesi. Ma il Sudan intende fermare e rimpatriare coloro che fuggono da regimi come quello eritreo o da situazioni critiche come quella somala, e lo farà a condizione che l’U.E. garantisca aiuti e sostegno, finendo con lo svolgere le stesse funzioni, più da lontano, svolte dai regimi libici e nord africani. Insomma una esternalizzazione delle frontiere ancora meno visibile e priva di qualsiasi controllo o vigilanza in merito al rispetto dei diritti umani. L’egoismo europeo è garantito e le coscienze verranno private delle immagini di qualche decina di migliaia di profughi. Verranno fermati? No, si realizzeranno soltanto rotte più lunghe, costose e rischiose, perché l’esigenza di salvarsi non si ferma davanti a nessun muro ed in più si daranno a regimi – che ufficialmente si condannano e si deplorano – gli strumenti per aumentare il proprio potere di ricatto.