Interviste letterarie

Come accorgersi di essere neri

- 12 Maggio 2015

9782290079263_CommentSavoirSiVousEtesNoir_couv.inddNell’Europa multiculturale la Francia si posiziona al quarto posto per presenza di stranieri, dopo Spagna, Regno Unito e Germania. Secondo i dati del 2012 dell’Insee (Institut national de la statistique et des ètudes èconomiques), nel Paese vivono 5,3 milioni di immigrati e 6,7 milioni di loro discendenti diretti. Dato il passato coloniale della Francia, non sorprende che 2,4 milioni di migranti provengano da Paesi africani: Algeria, Marocco, Tunisia e Africa sub-sahariana. Ogni comunità porta con sé i propri costumi. Ma cosa succede ai figli, nati in Francia o arrivati in Europa da bambini? Inevitabilmente l’identità si sdoppia e ci si ritrova nel mezzo: considerati “stranieri” dai francesi, “europei” dai parenti africani.

È una realtà che moltissime persone vivono e che due sorelle franco-congolesi di origine angolana (i genitori lasciarono l’Angola per il Congo, poi si trasferirono in Francia) hanno deciso di raccontare usando l’umorismo. Espérance Miezi e Félicité Kindoki hanno pubblicato in Francia un divertente libro dal titolo Comment savoir si vous êtes noir (Editions J’ai Lu) nel quale trattano con ironia le abitudini familiari e i luoghi comuni sull’Africa con cui si confrontano sin dalla nascita.

Ci sono, per esempio, i parenti del villaggio in Africa che, in previsione di un loro arrivo per una vacanza, fanno a turno a richiedere regali (arrivano telefonate ogni sera, inclusa quella di un nipote che dice allo zio: «Sai, vorrei tanto l’apparecchio per ascoltare la musica quando sono in giro… no, non l’Mp3, ci vuole quello che si chiama iPod nano oppure shuffle, altre marche non funzionano qui in Africa»). E ci sono gli amici francesi che non riescono a fare a meno di porre domande improbabili come: «Correvi dietro le gazzelle quando abitavi nella savana?» o di affermare che: «Sei predisposta per la danza, è nei tuoi geni», «Cosa ti metti a fare la crema solare, tanto non ti scotti!», «I tuoi capelli sembrano moquette…». Per non parlare dei soprannomi che, immancabilmente, vengono dati in ufficio a chi ha origini africane (Barack Obama, Kirikou se sei un uomo; Michelle Obama, Gazzella o Bellezza delle Isole se sei una donna).
Ne abbiamo parlato con le autrici.

Cosa vuol dire per i figli degli immigrati vivere in Francia, oggi, rispetto ai loro genitori?
Espérance: «Non facciamo paragoni con i nostri genitori: di certo vogliamo renderli orgogliosi e, per loro, riuscire nella vita. Nel quotidiano, dobbiamo ricordare a certe persone che siamo francesi, quindi non diverse».
Félicité: «Da una parte è vero, non ci poniamo il problema, perché siamo nate e cresciute in Francia. Il fatto di essere francesi fa sì che viviamo come gli altri: non ci pensiamo sistematicamente come “figlie di immigrati”. Però è vero che si tratta della nostra storia, del nostro bagaglio familiare e, per questo, dobbiamo riuscire nella vita: per rendere i nostri genitori fieri di noi. Se hanno lasciato tutto è stato per offrire ai loro figli un avvenire migliore e questa scelta va rispettata. La differenza principale tra noi e altri figli di immigrati, per esempio spagnoli, italiani, magrebini o cinesi, è il colore scuro della pelle. Alcune persone fanno più fatica a concepire che possiamo essere nere e anche francesi: purtroppo c’è questa tendenza ad associare il colore alla provenienza diretta, ignorando la storia. Per alcuni essere neri significa “venire dall’Africa, esservi nati e quindi necessariamente essere immigrati”».

Avete scelto di parlare della vostra identità di francesi di origine africana usando il senso dell’umorismo: ma c’è del malessere dietro i sorrisi?
F. «La questione della doppia identità è molto attuale e dibattuta in Francia. Il nostro intento era quello di denunciare il razzismo inconsapevole, quello sottile. E abbiamo pensato che l’ironia fosse un buon strumento, perché permette di veicolare un messaggio serio con leggerezza. Il riso e il sorriso sono armi non solo universali, ma che uniscono: usando l’humour abbiamo scelto di unire, non di dividere, visto che la questione è propensa a creare barriere, per via della paura del diverso. Il nostro comunque non è un riso amaro. Siamo assolutamente a nostro agio con la nostra doppia cultura, che resta una grande ricchezza e non un handicap: è ciò che ci permette di sdrammatizzare l’argomento».

Non avete avuto paura di alimentare gli stereotipi sugli africani?
E. «Sì, ma il nostro desiderio era quello di scardinarli proprio facendone una caricatura».
F. «Abbiamo usato gli stereotipi come punto di partenza: farne una caricatura li rende talmente ridicoli che, alla fine, chi ha certe idee si sente lui stesso ridicolo. È vero: c’era il rischio di alimentare alcune idee. Ma abbiamo raccolto la sfida e quando qualcuno, dopo aver letto il libro, confessa: “Io dicevo certe cose senza rendermi conto che erano delle stupidaggini, non lo farò più. Leggendo ho riso di me stesso” capisco che siamo riuscite nell’intento».

Voi parlate di “razzismo ordinario”, quello della vita di tutti i giorni. Secondo voi in Francia oggi c’è più razzismo o più ignoranza?
E. «L’ignoranza porta al razzismo».
F. «Entrambe le cose. Ignorare chi sia l’altro, accettare i pregiudizi che lo riguardano senza prendersi il disturbo di andare a verificarli, porta al razzismo. E il razzismo si alimenta dell’ignoranza, della paura dello sconosciuto. È un circolo vizioso che si romperebbe se ognuno si pendesse il tempo di andare verso l’altro».

Non pensate, però, che domande come “Ti fa male intrecciarti i capelli?” o “Ci prepari un piatto del tuo Paese?” possano anche essere manifestazioni di interesse per l’altro, modi per stabilire una relazione?
E. «Sì, ma a volte queste domande possono essere pesanti. E alla lunga, dover sempre dare spiegazioni è stancante».
F. «Manifestare interesse per l’altro non dovrebbe passare attraverso etichette o idee preconcette, ma attraverso il rispetto. Noi sottolineiamo quanto alcune persone siano maldestre nell’utilizzo di certe parole. Conviene a tutti fare attenzione a ciò che diciamo e a come lo diciamo, soprattutto in una società sempre più meticcia».

Trovate che la Francia abbia accolto e integrato bene i figli degli immigrati, francesi per nascita e cultura?
E. «I figli degli immigrati sono francesi, quindi non hanno bisogno di essere accolti o integrati!».
F. «Concordo, attenzione a non fare confusione: di che integrazione abbiamo bisogno se siamo nate qui e abbiamo la stessa cultura di qualunque altro francese? È una questione che non esiste».

Gabriella Grasso