Scuola di giornalismo

Gli sbarchi “sbagliati”

Stefano Galieni - 12 Maggio 2015

DisinformazioneLo scorso 7  maggio,  il quotidiano romano Il Tempo ha pubblicato, in prima pagina, un articolo che, già a partire dal titolo (Ecco dove hanno trovato casa i clandestini) si qualifica come esempio di pessimo giornalismo. Noi lo abbiamo segnalato all’Unar  (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) perché riteniamo che il suo contenuto contribusica a creare inutili allarmi sociali e indirettamente istighi alla xenofobia.  Vogliamo condividere  con i lettori la nostra analisi. Accanto ad una critica, proviamo a suggerire come  si dovrebbe invece operare per offrire una informazione corretta e completa.

1) I termini impropri

Intanto si torna sull’utilizzo improprio del termine “clandestino“, presente nel titolo come nel testo. Il termine oltre ad essere politicamente scorretto e a creare pregiudizi negativi non ha neanche giustificazione giuridica nell’utilizzo che ne viene fatto. Nessuna delle persone a cui si fa riferimento ha infatti mai ricevuto un provvedimento  di espulsione poi non osservato, si tratta in gran parte di persone o in attesa di essere identificate o che debbono poter presentare la domanda di asilo ma sono frenati dalle lentezze burocratiche e dalla presenza di una sola commissione territoriale che agisce in tre regioni ed ancora sta esaminando domande presentate nel febbraio 2014. Si tratta di dati che nell’articolo ci sono ma non impediscono poi di inquadrare le persone di cui si parla con un termine tanto inadeguato quanto capace di instillare allarme, paura e reazioni inconsulte. Sarebbe stato sufficiente dire che le persone a cui ci si riferisce vivono, non per loro scelta, in una sorta di limbo giuridico alquanto precario. Il primo dato fornito è che, sui 5421 migranti ospitati a Roma e provincia nelle 61 strutture disponibili, solo 191 persone hanno chiesto asilo politico. Gli altri fuggono in massa per evitare l’identificazione. E qui l’interrogativo: ma se fuggono (e non si spiega le ragioni per cui lo fanno) come mai risultano ospiti nei centri? Le strutture si intasano, diventano sovrappopolate e il loro costo lievita. Chi scrive si sofferma sui costi senza operare un collegamento concettuale. Non è forse anche per questo che da lì si scappa? Perché non si vuole restare parcheggiati in spazi fatiscenti, dove la qualità del cibo e delle condizioni di alloggio è spesso inadeguata?«Di norma – precisa la fonte  dell’inchiestati – l’80% delle domande di asilo viene rigettata, dunque il soggetto dovrebbe considerarsi clandestino ma anche in quel caso un tetto non glielo toglie nessuno: coi ricorsi, un buon avvocato e magari un giudice – succede sempre più spesso – ribalta il giudizio negativo della Commissione che non ha partecipato all’udienza, almeno otto mesi di alloggio nel centro sono garantiti». Si omette  di dire che le persone che vincono il ricorso al diniego sono, nella stragrande maggioranza dei casi, provenienti da paesi in guerra in cui non possono tornare, pena il rischio della vita stessa. La legge, per fortuna, non prevede in questi casi il rimpatrio, quindi le persone in questione ottengono, giustamente, una forma di protezione che impedisce la loro espulsione.

Il secondo termine su cui più si insiste, di per sè utile ma di cui si fa un uso totalmente improprio è “emergenza sanitaria“. Ora, se è vero che sulla certezza dello screening sanitario – che andrebbe effettuato al momento dello sbarco – le informazioni sono difformi, nell’articolo si racconta di una capitale ormai piena di persone che potenzialmente possono trasmettere scabbia e Tbc. L’allarme sanitario è reiterato in un altro articolo della stessa testata uscito il giorno successivo. Altri 10 malati di scabbia liberi a Roma. In questo caso si prende  spunto anche da avvenimenti di carattere  nazionale,  ottenuti dalle stesse fonti e attorno a una fastidiosa malattia dermatologica, di facile cura, che si contagia solo con un contatto continuativo con persone malate e non trattate si agita ancora lo spettro dell’epidemia. Quasi si trattasse di peste o di altre catastrofi sanitarie.

2) Divulgazione di dati sensibili.

Ora si comprende la necessità di informare ma gli organi competenti, dalla Prefettura al Comune, da tempo evitano di fornire  anche gli indirizzi dei centri di accoglienza per evitare il ripetersi di episodi di tensione spesso non spontanei. Anche a chi scrive è stata, giustamente rifiutata la mappa che poi invece campeggia a centro pagina del quotidiano e la stessa è stata rifiutata recentemente ad alcuni operatori dei centri che avevano incontrato l’assessora alle Politche Sociali del Comune, Francesca Danese. Quante persone, leggendo l’articolo sui “clandestini”, andranno a misurare la distanza che separa la loro abitazione dal centro più vicino? Quanti cominceranno a radunarsi per chiedere che nel loro quartiere i migranti non possano entrare? Proprio pochissimi giorni fa, la minaccia di mandare alcune decine di profughi in una zona periferica ma residenziale di Roma, “La Storta”, aveva fatto inalberare gli animi della borghesia che abita in quel quartiere. E numerosi sono i casi, in giro per l’Italia, in cui l’annuncio dell’arrivo di poche unità di persone provoca reazioni assurde, dalla Val D’Aosta alla Toscana al Molise, per citarne alcuni. A nostro modesto avviso il compito di mettere in  relazione  le strutture  che ospitano profughi con il territorio circostante, dovrebbe essere  un compito  demandato alle istituzioni di  prossimità (Comune, Municipi, presidi territoriali) e non certo ad una testata giornalistica che ne fa in questo caso, uso improprio.

3) La incompletezza delle fonti utilizzate

Nella composizione dell’articolo si fa poi sostanzialmente riferimento ad una sola fonte. Esponenti di un sindacato di Polizia, il Siulp che dal loro punto di vista, certamente da non ignorare, pongono l’attenzione sulla scarsità di mezzi a disposizione rispetto ad un disagio oggettivo. Ma un unica fonte inevitabilmente non può rappresentare la realtà nel suo complesso. Se, volendo svolgere un inchiesta ci si fosse premurati di andare almeno in uno dei centri di accoglienza, parlando con i migranti, i  responsabili degli enti gestori, gli operatori spesso costretti ad orari di lavoro durissimi a fronte di contratti di breve durata e con salari esigui, si avrebbe avuta una più completa dimensione della questione. Ma questo avrebbe costretto a far divenire le persone  di cui si parla, come si diceva anche in maniera impropria, soggetti e non oggetti dell’inchiesta. Si preferisce far percepire i migranti come privileggiati protetti da giudici e avvocati che vanno in giro per la città ad infettare il prossimo.

4) Dati ed  esempi che generano confusione

L’articolo esaminato pone come al centro dei problemi il tema dell’arrivo in massa dei profughi con tutte i disagi  che questo comporta. Ma quando poi si cerca una storia per confermare l’emergenza sanitaria, si passa  ad altro. La solita fonte unica racconta di una cittadina nomade montenegrina, affetta da Tbc, che: «Anziché restare in isolamento abitativo come le era stato prescritto, ha attraversato Roma per chiederci un permesso di soggiorno per motivi umanitari». Al di là del fatto che la fase in cui tale malattia risulta contagiosa è di pochi giorni, e non volendo considerare le reali modalità in cui può avvenire il contagio, le due domande da porsi sono due. La prima: come avrebbe potuto altrimenti la signora in questione richiedere il permesso? La seconda: che c’entra una persona che arriva dal Montenegro con la questione “sbarchi”?

Ma non solo: tornando alla questione sbarchi si presentano i dati finora disponibili, li  si mescola  con le domande di asilo presentate, relative come dicevamo al febbraio 2014, si accenna ad altri 3100 posti  che secondo la prefettura dovranno essere resi disponibili, si enunciano le spese effettuate nello scorso anno e si omette di dare  la notizia più importante. Che il sistema intero, che riguarda Roma e provincia,  è in  fase di cambiamento e i nuovi spazi dovranno essere realizzati entro maggio. Si estrapola poi una dichiarazione del Prefetto  di Roma relativa alla possibile  requisizione degli istituti religiosi utilizzati “per  fare affari col Giubileo” e si conclude reiterando l’allarme: «Rafforzare la sicurezza sanitaria – subito – altrimenti la situazione sarà ingestibile», sempre secondo l’unica fonte interpellata. Nè chi ha scritto l’articolo né chi ha rilasciato tali dichiarazioni prova a spiegarci come, magari, è un suggerimento, sarebbe stato utile il parere di  un epidemiologo. I lettori ne avrebbero tratto di sicuro giovamento.

In conclusione vogliamo augurarci  che tanto la prefettura di Roma quanto gli altri soggetti   che operano per affrontare quotidianamente i problemi connessi all’accoglienza nel rispetto dei diritti, si adoperino  per cautelarsi da simili operazioni che non ottengono altro risultato che rendere più difficile il loro lavoro.

Stefano Galieni