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8 giugno 1913

Daniele Barbieri - 29 Maggio 2015

emilyportraitAveva 41 anni Emily Wilding Davison quando al Derby di Epsom, il 4 giugno 1913, cercò di afferrare le briglie del cavallo del re durante una corsa. Che volesse attaccare una bandiera o fermare la gara conta poco: sapeva di rischiare la vita. E la perse. Molte altre donne presero il suo posto nella lotta per il voto alle donne, cioè per il suffragio davvero universale. E vinsero.
Le suffragiste erano disposte anche a morire pur di richiamare l’attenzione della “pubblica opinione” sulle ragioni della loro ingiusta detenzione. Il governo si rese conto che alimentarle a forza non era possibile e lasciarle morire “controproducente” e così varò – proprio nel 1913 – il «Cat and Mouse Act», la legge del gatto e del topo: in parole povere i medici visitavano le detenute in lotta e quando erano in pericolo di vita ordinavano di liberarle ma fuori dal carcere venivano regolarmente controllate e appena stavano bene riarrestate.
Galere, bastonate, leggi subdole non fermarono le suffragiste. Come quasi sempre accade di fronte alla repressione una parte del movimento si radicalizzò. Visto che, con le “buone maniere” nessuno dava retta alle loro richieste (ormai “vecchie” di oltre 30 anni) migliaia di donne inglesi di ogni estrazione sociale diedero il via ad azioni clamorose: interruppero inaugurazioni e comizi, ruppero le finestre dei palazzi del governo, incendiarono cassette postali, si incatenarono durante le manifestazioni. E dopo una dura, lunga lotta vinsero: nel 1918 il parlamento del Regno Unito approvò un pur limitato diritto di voto (solo alle mogli dei capifamiglia sopra i 30 anni) e poi, il 2 luglio 1928, il suffragio venne esteso a tutte le donne.
Emily Davison era nata in una famiglia numerosa. Si appassionò agli studi, arrivando all’università ma fu costretta ad abbandonare perché la madre, rimasta vedova, non aveva più denaro. Divenne insegnante e con i suoi sudati soldi poté iscriversi a Oxford per studiare Lingua e Letteratura Inglese, ottenendo i risultati migliori all’esame finale del suo corso, anche se alle donne non era consentito laurearsi in quella università.
Fin dal 1906, Emily Davison si iscrisse alla «Unione sociale e politica delle donne» (Wspu cioè Women’s Social and Political Union) creata da Emmeline Pankhurst. Più volte arrestata, in carcere fece lo sciopero della fame e venne sottoposta ad alimentazione forzata. La notte del 2 aprile 1911, in occasione del censimento, si nascose in un armadio del Palazzo di Westminster in modo da poter legittimamente indicare sul modulo che la sua residenza, quella notte, era stata la Camera dei Comuni, un luogo che era vietato alle donne. Sistemò anche una bomba “simbolica” (ma che fece grossi danni) nella casa di Lloyd George.
Il 4 giugno 1913 la protesta al Derby: quando scese in pista, Emily aveva con sé la bandiera viola, bianca e verde del Wspu. Travolta dal cavallo rimase a terra. Si capì subito che era in fin di vita: frattura al cranio.
Re Giorgio V si interessò subito alla sorte del suo cavallo e del fantino, Herbert Jones (lievemente ferito) manifestando «disappunto per la giornata rovinata». La regina spedì un telegramma al fantino, augurandogli di guarire presto da quel «triste incidente causato dal comportamento deplorevole di una donna lunatica e terribile». Quel fantino era mille volte meglio del re e della regina: al funerale di Emmeline Pankhurst, nel 1928, Jones depose una corona «in memoria della signora Pankhurst e di miss Emily Davison».
Un’agonia di 4 giorni per Emily. Al suo funerale, il 14 giugno 1913, una folla immensa. La lapide, posta sulla sua tomba, reca la frase «Atti non parole», lo slogan della Wspu.
Fu descritta dai giornalisti inglesi come una squilibrata (era la normale definizione per le donne che esigevano i loro diritti). Invece il settimanale «The Suffragette» uscì con una copertina che la raffigurava come un angelo alato e la famosa citazione del “Vangelo di Giovanni” che fu poi incisa anche sulla sua tomba: «nessuno ha un amore più grande di chi sacrifica la propria vita per i suoi amici»

Daniele Barbieri