Letture migranti

Nawal, l’angelo dei profughi

- 29 Maggio 2015

NawalL’attivista di cui parlano i siriani che, nella nostra apertura, denunciano i maltrattamenti subiti nel centro di primo soccorso di Pozzallo è lei, Nawal Soufi: 27 anni, marocchina di nascita ma cresciuta a Catania, ha messo la sua conoscenza dell’arabo e la sua empatia a servizio dei siriani che, da mesi, sbarcano sulle coste italiane. Daniele Biella le ha dedicato un libro, uscito da poco per le Edizioni Paoline, e con un titolo chiarissimo:  Nawal L’angelo dei profughi (Edizioni Paoline).  Il brano che vi proponiamo è tratto da questo volume ed è un testo di Nawal.

«Il mare è un grembo, un grembo enorme. Quando arrivano gli SOS delle barche in pericolo, iniziano le doglie: chi sta a terra e riceve la telefonata le sente nel vero senso della parola. «Siamo 500 persone, stiamo per affondare, i bambini stanno morendo, non bevono acqua da sette giorni. Non vediamo nessuno vicino, nessuna nave mercantile, ti prego Madam, chiama  i soccorsi». A te che ascolti questo appello iniziano a venire i dolori, crampi, difficoltà respiratorie. È qualcosa che, probabilmente, nessun medico riuscirebbe a spiegare. Poi capisci che alle doglie devi rimediare in qualche modo. Il medico allora lo chiami: è la Guardia Costiera. Dai le coordinate della posizione dell’imbarcazione. Da quel momento passano ore. Ore terribili di attesa. Capita che riescano a salvarli, e che quelle persone che hanno visto la morte in faccia tocchino terra. Come in una nuova, vera nascita. Ti chiamano madre, quando arrivano da te in stazione a Catania, quando ti ringraziano per dirti che ce l’hanno fatta. Una madre felice, nonostante la stanchezza del parto. Che poco dopo riesce già a rialzarsi, perché l’arrivo dei suoi figli, nati-rinati, l’ha resa invincibile e loro hanno bisogno subito di lei: devono imparare a muoversi in questo nuovo mondo, apprendere una lingua sconosciuta, si fanno accompagnare per attraversare la strada, per andare a prendere il pane, una scheda telefonica. O un pacchetto di sigarette: non sanno che non si vendono al chioschetto dei giornali o al supermercato ma si possono trovare in un posto con una grossa «T» sopra la porta d’ingresso. Come si insegna ai bambini, così si deve fare con chi scampa a un naufragio. Una delle cose più belle che l’umanità possa provare è la nascita, ecco perché il mare è molto bello. Ti regala la felicità, riesci a viverla a fondo, ma ti porta anche tante lacrime, quando va male. Alla fine però non è colpa sua: non ha deciso lui di rompere il legno dell’imbarcazione, di tenersi alcune persone e di non restituirle ai propri cari. Siamo noi esseri umani che l’abbiamo deciso. Il nostro egoismo, le nostre leggi, le nostre chiusure. Quando chiudi le frontiere ti chiudi dentro il lusso di poterti svegliare con una colazione sontuosa, con due telefoni e almeno una macchina, quando dall’altra parte del mare c’è chi in un anno intero non mangia la carne che mangiamo noi in una settimana. Fare questi paragoni è importante, per capire la sensazione di queste persone quando decidono di salire sulla barca, a costo di perdere la vita. Non hanno deciso di suicidarsi, sono persone che rischiano di morire, sì, ma per l’eccessiva speranza, non per disperazione. Quest’ultima ti fa salire sul quarto piano di un palazzo per buttarti di sotto e finirla lì, invece la speranza è una cosa talmente grande che ti fa attraversare il Mediterraneo, anche a gennaio, con un gommone, magari senza avere con te un satellitare. È la speranza che uccide, in fondo. Ma è anche quella che, da sempre, porta l’uomo a vivere una vita migliore, a sognare e a realizzarli, questi sogni».