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Greci fannulloni e migranti parassiti

Sergio Bontempelli e Stefano Galieni - 5 Luglio 2015

Grexit «La Grecia deve rispettare le regole». Lo affermava il 1 luglio, ripreso da tutte le testate televisive e di carta stampata, il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi. Due giorni dopo, lo stesso premier riprendeva il filo del discorso, parlando degli italiani che, a suo dire, sosterrebbero sulle proprie spalle il peso economico dei greci. 

Discorsi del genere si sono diffusi un po’ ovunque, in questi giorni di isteria mediatica sul “rischio Grexit”. Atene che non rispetta le regole. Gli ellenici “pigri”, che non hanno voglia di lavorare, che hanno vissuto “al di sopra delle loro possibilità”. I “baby-pensionati” di Atene che vogliono scaricare su di noi il peso dei loro privilegi. E poi gli europei che lavorano sodo per mantenere gli scansafatiche balcanici: in un Tg del servizio pubblico trasmesso in queste ore di trepidazione, il giornalista di turno affermava che il caos greco “costa ad ogni italiano almeno 1000 euro”. 

C’è una singolare analogia tra le invettive rivolte ad Atene e i discorsi che riguardano rom, immigrati e profughi. Già, perché nei ragionamenti di senso comune anche “loro” – gli altri, gli invasori, quelli che arrivano coi barconi o che vivono nei campi nomadi ai margini delle città – sono dipinti come “parassiti”: privilegiati che vivono a spese nostre, che non rispettano le regole e che portano confusione, insicurezza e disordine. Certo, i contesti sono diversi, e anche il lessico – parole, aggettivi, definizioni – non è sempre lo stesso. Eppure, è difficile non rimanere colpiti da una certa “aria di famiglia”, che sembra accomunare due ordini di ragionamento pur così distanti. 

Che la “questione greca” non possa essere ridotta ad un problema di “parassitismo”, ce lo dicono da tempo gli economisti più attenti e documentati (alcuni dei quali insigniti del Premio Nobel, forse non a caso). In Grecia si lavora in media 41,4 ore alla settimana, più che in Europa, e si va in pensione dopo i 61 anni, anche qui oltre la media continentale. Il debito pubblico italiano è sette volte più alto di quello greco, e le politiche UE hanno in molti casi comportato tagli ai servizi e al welfare per pagare gli interessi del debito. Infine, quelle che vengono definite “riforme” si traducono spesso in misure di austerity che deprimono l’economia, alimentando la spirale perversa della crisi. 

Tutto questo è abbastanza noto, e non staremo a ripeterlo (anche perché non siamo le persone più competenti per farlo). Ci interessa, invece, soffermarci sulla strategia retorica utilizzata, più o meno consapevolmente, per raccontare le vicende elleniche. 

La stampa nostrana è stata, fin qui, assai poco incline a chiarire i complicati meccanismi che hanno innescato la crisi greca ed europea. Ha preferito addossare la colpa ai “greci fannulloni e parassiti”: d’altra parte, si sa, è sempre comodo individuare un “capro espiatorio”, possibilmente debole, su cui scaricare le ire dei lettori (e degli elettori). 

Anche qui le analogie con il discorso pubblico sull’immigrazione sono evidenti. Perché in fin dei conti dire che il debito è “tutta colpa dei greci” è un po’ come affermare che il “degrado” esiste a causa dei rom, che la criminalità è cresciuta per la presenza dei “clandestini”, che il problema della disoccupazione nasce dagli immigrati che rubano il lavoro agli italiani… 

E qui non si tratta – si badi bene – di essere pro o contro il governo greco, pro o contro le sue scelte politiche, pro o contro le tesi “radicali” di Tsipras e compagnia. Gli economisti che in queste ore hanno duramente contestato l’atteggiamento “inflessibile” delle cancellerie europee non sono necessariamente dei sostenitori di Syriza, e anzi – in molti casi – sono critici nei confronti dell’esecutivo ellenico. Ma, per l’appunto, una cosa è criticare anche duramente le scelte di un governo, e altra cosa è attribuire ai “greci fannulloni” le responsabilità di una vicenda lunga, articolata e maledettamente complessa. 

E invece, la stampa nostrana sembra aver privilegiato proprio questa scorciatoia. Sembra cioè aver avallato la logica del “capro espiatorio”, come ha fatto in tutti questi anni – per l’appunto – con rom, migranti, rifugiati e profughi. E questo la dice lunga su come funzionano l’informazione e la politica in Italia. 

Da ultimo, in questo ardito paragone tra greci e migranti, ci viene da aggiungere un ulteriore elemento, per certi versi ancor più azzardato. In molti hanno detto che il problema greco non è di natura economica (l’equivalente del debito è stato bruciato dalle borse europee in un solo giorno di crollo) ma è di ordine politico: ciò che temono le cancellerie continentali è il cosiddetto “effetto contagio”, ossia la possibilità che altri paesi, seguendo la scia di Atene, si sottraggano alle politiche economiche della UE e chiedano di rinegoziarle. 

Ecco, forse sta (anche) qui la chiave delle singolari analogie tra il discorso pubblico sulla crisi greca e quello sull’immigrazione. In fin dei conti, siamo di fronte in entrambi i casi alla rottura di ordini consolidati, considerati quasi naturali: se il piccolo paese ellenico contesta le politiche economiche più che ventennali della UE (con la loro insistenza sulle “riforme”, sullo smantellamento del welfare e delle garanzie sociali), i migranti che attraversano il Mediterraneo violano ogni giorno le frontiere, i confini, i controlli militari sulle coste dell’Europa-fortezza. 

Emerge dunque la possibilità che “persone” (nel caso dei migranti) o “paesi” (nel caso dell’UE) non accettino diktat considerati ovvi, indiscutibili, e propongano altre modalità di risoluzione dei problemi. Viene allora da chiedersi se non sia proprio questa la posta in gioco: uscire dalla politica dei diktat, dalla logica del “there is no alternative” (non c’è alternativa), e immaginare altre forme di relazione tra individui, paesi, istituzioni, gruppi sociali.

 Stefano Galieni  e Sergio Bontempelli 

L’immagine è una vignetta di Matteo Bertelli, tratta dal sito di Libertà e Giustizia