Testimonianze/1

Lampedusa, l’aria che tira

Martina Zanchi - 10 Agosto 2015

Quando ho detto che sarei andata in vacanza a Lampedusa, le reazioni dei miei conoscenti sono state di due tipi, opposte e speculari. C’era chi mi immaginava vagare in un enorme campo profughi, esposta a chissà quali pericoli e malattie, e chi mi pensava, invece, impegnata su un fronte di guerra, drammatico ma avventuroso, alla stregua di una Oriana Fallaci dei nostri giorni. La realtà di Lampedusa, e chi sbarca lo capisce immediatamente, è lontana da entrambe le “visioni”. I migranti, l’accoglienza, quel “sovraffollamento” che traspare dalle immagini dei TG, il lato che, insomma, fa notizia, non è che un solo lato. E neanche particolarmente nuovo. Poi c’è molto altro.

LAMPEDUSA CorriereMigrazioniLampedusa è un’isola bellissima. Non mi riferisco alla zona più strettamente turistica: sono stata tanto affascinata dalla bellezza quasi monumentale dell’isola dei Conigli quanto infastidita dal gran numero di persone che, già dal primo mattino, lì prendono il sole e fanno il bagno. Muoversi in orari meno “balneari” e percorrere qualche chilometro fuori dal piccolo centro urbano apre scenari inconsueti, per noi della «terraferma». Il paesaggio è duro, arso dal sole, ogni alito di vento va accolto come un regalo. Ogni tanto si incontra qualche casa fatta di pietra, isolata tra le rocce, gli arbusti e qualche albero stanco. E poi ci sono le scogliere, le calette nascoste tra le gole di pietra e terra, i pesci e i cani randagi. I ragazzini che corrono in bicicletta anche a tarda sera e gli sciami di persone in motorino che, rigorosamente senza casco, guidano adottando un codice della strada tutto loro. Ma un turista non può mai sentire Lampedusa come casa propria. L’accoglienza distaccata degli isolani, pur con tutta la gentilezza che riservano agli ospiti, ti fa intuire che, in ogni caso, tu sei una cosa “altra” da loro.

A Lampedusa si ha la percezione di trovarsi nel luogo più sicuro del mondo: «se tu per strada mi fermi e mi chiedi un passaggio in auto – spiega una barista – io non ho paura di dartelo. Qui ci fidiamo». Eppure, per le sue dimensioni e per l’atmosfera che si respira, l’isola è particolarmente militarizzata. Giri un angolo e i mezzi antisommossa dei Carabinieri, parcheggiati tra le auto con i finestrini aperti e i panni stesi in mezzo alla strada, ti riportano di nuovo a quella strana sensazione iniziale: si vede il fumo, ma dov’è l’incendio?
La situazione, raccontano i residenti, è la stessa da almeno vent’anni. Qui i migranti sono sempre arrivati, i turisti trascorrono le vacanze senza fastidi e i residenti (circa 6 mila persone in tutto) vivono la loro vita in tranquillità e con le preoccupazioni che affliggono più o meno ogni cittadino italiano (più qualche altra, legata all’assenza specifica di servizi sull’isola) senza però alcuna percezione di emergenza. L’acqua non è potabile praticamente da sempre, e i residenti vorrebbero finalmente poter fruire di un servizio fondamentale in una qualsiasi società civile. Chiedono che le scuole vengano ristrutturate, che il trasporto pubblico diventi più efficiente, che le attività culturali non si fermino con la fine dell’estate. Qualcuno ha da ridire sulle capacità amministrative di Giusi Nicolini, il Sindaco-simbolo dell’accoglienza in Italia, mentre altri la sostengono condividendone le politiche. Ma non si deve fare l’errore di soffermarsi su un solo piano.

«I giornalisti? Sono dei bastardi, non so cosa abbiano contro questa terra». La signora del bar sulla strada di Ponente tradisce un’espressione di disprezzo, mentre serve cornetti e caffè.
«Ma allora i migranti non ci sono?». «Sì, ci sono – risponde lei – Ma loro stanno là, al centro… noi li vediamo solo quando arrivano al porto. Si vede che è povera gente, anche se alcuni sono vestiti bene. Poi salgono sui pullman dei Carabinieri e li portano lì dentro. Non glielo so spiegare come ci si arriva. Comunque noi con loro non abbiamo mai avuto problemi, non ci danno fastidio, in città non li vediamo e non li sentiamo. I giornalisti dicono bugie, non è vero che Lampedusa è invasa».

Al Centro di Primo Soccorso e Accoglienza (CPSA) di Lampedusa, oggi gestito dalle Misericordie Srl, si arriva percorrendo qualche chilometro fuori dal centro urbano, verso il centro dell’isola. Dentro ci sono circa 900 persone – anche se la capienza massima si aggira sulle 380 unità – praticamente il 15% della popolazione dell’isola. Eppure quella dei migranti è una presenza “fantasma”. Il fatto è che dal centro, una volta entrati, non si può più uscire se non per essere trasferiti in qualche altra struttura in giro per l’Italia. Le giornate trascorrono dietro le alte recinzioni finché qualcuno, più in alto, non decide per te dove devi essere inviato. E perché questo avvenga normalmente passano ben più delle 48 ore previste, arrivando a permanenze lunghe diverse settimane. Una sorta di carcere a cielo aperto per persone che non hanno commesso alcun crimine. «Fino a un po’ di tempo fa qualcuno di loro si vedeva in giro, soprattutto d’inverno – racconta una donna che sorseggia una granita al bar – dicono che scappassero da un buco nella recinzione. Adesso probabilmente lo hanno riparato, perché noi non li vediamo più».
E sembra quasi che, da più in alto, questa sia una cosa voluta. Quando i migranti arrivano al molo di Lampedusa – non ci sono sbarchi da mesi, le persone che arrivano vengono soccorse in mare o trasferite da altre località – di solito trovano ad accoglierli un gruppo di cittadini, legati a varie realtà sociali dell’isola, che provano a offrire beni di prima necessità, ascoltando le esigenze di chi arriva. Negli ultimi tempi, però, questa attività ha incontrato non poche resistenze da parte di alcuni pubblici ufficiali. La prassi dei più ortodossi osservanti delle procedure doveva seguire un percorso ben definito, col minor numero di contatti con l’esterno: arrivo al molo, trasferimento sui pullman scortati, entrata nel centro di Contrada Imbriacola. Le porte si chiudono alle spalle di un cordone di militari e nulla può uscire senza autorizzazione: né foto, né testimonianze, tanto meno persone.

Da Lampedusa si torna senza quasi accorgersene. Qualcuno ti accompagna all’aeroporto dell’isola dove, in meno di un’ora, hai già concluso tutte le procedure di imbarco. Da Fiumicino, prima di decollare, l’aereo percorre un estenuante percorso prima di raggiungere la pista; nel frattempo hai svariati minuti per chiederti se a casa hai chiuso il gas e se non fosse il caso di portarsi qualche vestito in più. Qui, invece, sei in cielo che neanche te ne accorgi. Te ne vai da straniero, consapevole di non aver afferrato a pieno il senso profondo della complessità dell’isola, che rimane schiva e silenziosa anche vista dall’alto. E’ per questo che è difficile raccontare di Lampedusa: se ne dovrebbe parlare maneggiando con cura le parole e le immagini, con la discrezione di chi sa di essere stato solo di passaggio.

Martina Zanchi