Consulte e dintorni

Tavoli traballanti?

- 16 Giugno 2013

Alcuni attivisti definiscono i tavoli migranti “inutili e non rappresentativi”. Ma cosa sono e come funzionano questi organismi di partecipazione?

«Inutili, non funzionali e non rappresentativi». E anche «autoreferenziali», incapaci di «intercettare le istanze e le aspettative» delle comunità migranti. Così Yalla Italia, definisce i “tavoli” sull’immigrazione creati dai Comuni, dalle Province e dagli enti locali in genere. Un giudizio senza appello, che si conclude con una proposta altrettanto lapidaria: meglio chiudere quei tavoli. E una volta chiusi, meglio non riaprirli.

Tutto nasce dalla vicenda di Parma, che ha sollevato un vespaio di polemiche, sia locali che nazionali. Riassumiamo ad uso dei distratti: nella città emiliana, l’amministrazione Vignali decide di dar vita, nel 2010, al “Tavolo immigrazione e cittadinanza”, di cui fanno parte sei rappresentanti di altrettante “comunità” straniere. Poi arrivano i Cinque Stelle e il nuovo sindaco Federico Pizzarotti: per Parma si annuncia un’era nuova, gli amministratori hanno volti giovani e riscuotono diffuse simpatie.

I sei membri del Tavolo sono fiduciosi, e chiedono subito un incontro al primo cittadino: vogliono che il “nuovo corso” si apra all’insegna della partecipazione dei migranti. Pizzarotti però prende tempo, dice che prima di incontrarli preferisce aspettare la nomina dell’assessore al welfare. Quando finalmente arriva l’assessore, i sei rappresentanti si fanno di nuovo vivi ma nessuno risponde. E il silenzio dura un anno: quanto basta per far capire le reali intenzioni della Giunta.

Così, Cleophas Adrien Dioma – presidente del fatidico “tavolo” – rassegna le sue dimissioni. E siccome anche gli altri componenti fanno la stessa cosa, il Tavolo viene sciolto dai suoi stessi membri: che anzi, in segno di protesta, decidono di restituire al Sindaco le chiavi della loro sede.

Fin qui, la vicenda di Parma. Ma cosa succede altrove, in altre città? I “tavoli” sono davvero, e ovunque, luoghi «inutili, non funzionali e non rappresentativi»? Proviamo a dare un’occhiata.

Tavoli, consulte, consigli e consiglieri Quelli che Yalla Italia definisce “tavoli” si chiamano, tecnicamente, “organismi di partecipazione”. Il Testo Unico degli Enti Locali, cioè la legge che regola la vita di Comuni, Province e Comunità Montane, prevede all’art. 8 l’obbligo di istituire «organismi di partecipazione popolare» (comma 1), nonché «forme di partecipazione dei cittadini dell’Unione europea e degli stranieri regolarmente soggiornanti» (comma 5). La norma, come si vede, è abbastanza generica: non dice come devono funzionare questi organismi, chi deve farne parte, come devono essere scelti i membri, quanto durano in carica, se e come decadono. I Comuni (e le Province) hanno ampi margini di autonomia. E così, ognuno finisce per sperimentare formule diverse.

Le più diffuse sono quelle a carattere elettivo, chiamate – a seconda dei casi – “consulta degli immigrati”, “consiglio degli stranieri”, con infinite variazioni sul tema. Il corpo elettorale di questi organismi non è sempre lo stesso: a volte si chiamano alle urne tutti i cittadini stranieri, altre volte ci si limita ai soli non comunitari (come è accaduto a Modena, Bolzano, Perugia); in molti Comuni emiliani si escludono gli immigrati con doppia cittadinanza (italiana e straniera), mentre nell’area milanese i naturalizzati possono tranquillamente votare ed essere eletti. Poi ci sono i cosiddetti “consiglieri aggiunti”, sperimentati per la prima volta a Nonantola, in provincia di Modena, negli anni Novanta. Anche in questo caso, i cittadini stranieri sono chiamati alle urne, ma non eleggono “consigli” e “consulte”: devono scegliere, invece, un rappresentante che siederà in consiglio comunale, con diritto di parola ma senza diritto di voto. Una specie di “consigliere di serie B”, in attesa che anche ai migranti venga riconosciuto (chissà quando) un diritto di voto vero e proprio.

Quante sono le consulte, quanti sono i consigli, quanti i consiglieri aggiunti? Quanto sono diffuse queste forme di partecipazione? Può sembrare bizzarro, ma la risposta non c’è. Le uniche “mappature” in circolazione sono ben fatte, ragionate e dettagliate, ma un po’ vecchiotte: ne esistono due – una della Caritas e l’altra dell’Asgi – che risalgono al lontano 2005. Per avere dati aggiornati, bisogna fare riferimento alla rilevazione condotta dal portale Integrazione Migranti (curato dal Governo italiano): è una ricerca ancora in corso, quindi nulla di definitivo.

Secondo il portale, dunque, esisterebbero 14 Consulte regionali, 48 a livello comunale e 19 su scala provinciale. I consiglieri aggiunti sarebbero in tutto 29. Non sono esattamente cifre da capogiro, se si pensa che l’Italia è famosa per i suoi “ottomila comuni”: certo, nessuno si aspettava ottomila consulte o consigli, ma trovarne appena 48 non fa un bell’effetto.

Chi partecipa Ancora più disarmanti sono i dati sull’affluenza alle urne. Nel novembre scorso, per dirne una, le elezioni a Cagliari sono state salutate come un trionfo della partecipazione, un vero e proprio record: sono andati a votare il 31% degli aventi diritto. Un anno prima, si era votato per la Consulta del Comune di Padova, e la percentuale dei votanti si era fermata al 21,5%. Secondo Marco Zurru, un sociologo cagliaritano che di queste cose se ne intende, «in quasi tutte le esperienze, la prima volta che gli stranieri si sono recati alle urne hanno dimostrato una partecipazione che oscilla tra un 30-34%, per poi declinare a percentuali molto più modeste (intorno al 15%) nelle successive tornate». Detta brutalmente, “consulte”, “consigli” e “consiglieri” rappresentano un quinto, un quarto o – quando va di lusso – un terzo del loro elettorato potenziale. Un po’ poco per parlare di rappresentanza.

Immigrati “qualunquisti”? Bisognerebbe interrogarsi sui motivi di questa disaffezione al voto: certo, siamo in un periodo in cui l’astensionismo “tira” anche tra gli italiani, ma le cifre (almeno per ora) non sono paragonabili. L’impressione è che questi organismi siano percepiti più come una palestra per aspiranti (e inutili) leader, che come reali strumenti di partecipazione. Anche perché i loro poteri reali sono pressoché nulli: si tratta, ricordiamolo, di organi “consultivi”. Una conferma indiretta di questa sensazione ci viene da una recente ricerca Parsec, condotta su un campione di associazioni di stranieri in tre regioni italiane (Lazio, Calabria e Emilia Romagna: qui il testo integrale). Le associazioni censite sono circa 400: nel 36% dei casi si tratta di gruppi mononazionali (le cosiddette “comunità”), il 24% è plurinazionale e il 39% è indicato come “interculturale” (cioè con la presenza di attivisti italiani).

I tempi dell’associazionismo “separato” stanno forse tramontando, e per i migranti è arrivato il momento di una partecipazione piena e intera. C’è bisogno, in altre parole, del diritto di voto, del coinvolgimento attivo nella vita politica, non di una partecipazione “in tono minore”, in organismi separati e consultivi. Ed è ancora la ricerca Parsec a dirci che «in molti casi le associazioni che partecipano a coordinamenti locali non prendono invece parte alle consulte». Come dire che esiste un mondo di attivismo migrante che non si riconosce negli “organismi di rappresentanza”. Ed è anche da questo mondo, dalle sue istanze e dai suoi bisogni, che nasce la provocazione di Yalla Italia: rovesciamo i “tavoli”, chiudiamoli. Voltiamo pagina. Facciamo due passi avanti. È arrivato il momento.

Sergio Bontempelli