Gay e marito. Quando l'omosessualità è una colpa

L.M. - 4 Marzo 2011
Incontro Ousmane in uno dei tanti fast food del centro. Non è stato facile riuscire a farlo venire. Ousmane è gay, ed essere gay in Senegal vuol dire portarsi dietro il peso di una colpa. L’omosessualità resta un argomento tabù di cui non si può nemmeno parlare. Ousmane si guarda attorno e quasi sussurra le parole, come se la sua omosessualità fosse incisa come un marchio sul suo volto. E’ un ragazzo davvero bello, trent’anni e una laurea in storia.
«Ho sempre saputo di essere gay. Fin da piccolo cercavo la compagnia dei maschi, ero attratto da loro, dalla loro fisicità, dal loro modo di fare. Le ragazze non mi interessavano» mi dice prima di abbassare gli occhi e sospirare. «Qui è difficile. Non è possibile dichiararsi e vivere la propria vita in pace. E allora ho mentito e mento da una vita». Le parole di Ousmane non mi sono nuove, questa è la quotidianità omosessuale di un paese, il Senegal, fortemente omofobo. «Qui se sanno che sei gay ti lanciano le pietre, ti insultano, ti allontanano dalla famiglia. Le persone pensano che sia una malattia o, peggio ancora, che sia il risultato di uno dei tanti ‘maraboutage’ (sortilegi) fatti contro la famiglia», continua Ousmane.
«Com’è vivere una doppia vita?» gli chiedo. Sospira, poi riprende: «E’ difficile. Sette anni fa sono riuscito a partire per l’Italia. E’ stata una liberazione. Sono arrivato a Brescia, a casa di un amico e per la prima volta nelle vita, mi sono sentito libero. Ho avuto una bellissima storia d’amore con un uomo italiano, sposato, per circa due anni». «E poi?» incalzo io. «Poi la moglie ha scoperto tutto, colpa dei messaggi nel cellulare, le è venuta una crisi, ha minacciato di rendere pubblica la cosa e lui, stimato uomo d’affari, non poteva permetterselo. Ha preferito lasciare me. Dopo di lui solo tante piccole avventure». «Come mai sei tornato?» continuo. «Non riuscivo a trovare lavoro e i senegalesi cominciavano a parlare. Telefonavano alla mia famiglia dicendo che io andavo a letto con uomini italiani. Ho deciso di tornare e per il bene di mia madre mi sono sposato».
Ousmane parla a tratti, lo sguardo sempre attento ogni volta che la porta si apre, poi continua «E’ stato difficile. E’ difficile vivere l’intimità con mia moglie. Lei pensa sia colpa sua e piange, mi chiede se ho altre donne. Come faccio a dirle che non ho altre donne ma frequento un uomo?».
«Sei fidanzato?» gli chiedo subito io. «Diciamo. Da qualche tempo frequento Saly, un angolo europeo in mezzo al Senegal. E’ lì che ho conosciuto Richard, un uomo francese di 50 anni. Viviamo una storia nella clandestinità, io, per facciata, faccio finta di essere il guardiano di casa e tutti ci credono».
«Esiste un mondo omosessuale nascosto, qui a Dakar?» chiedo provocatoriamente. Ousmane risponde senza esitare, «Sì, eccome. E’ un mondo sotterraneo che parte dalle famiglie e arriva fino alla società tutta. Molti sono i locali in cui i gay si ritrovano, in generale sono le discoteche frequentate dagli ‘gnak’ (termine wolof per designare gli africani anglofoni o, in generale, provenienti dall’Africa centrale). Gli gnak sono più liberi, tanti sono dichiaratamente bisessuali e vivono la loro sessualità con meno paura. A loro non gliene frega niente di essere visti».
«Come vedi il futuro?» gli domando. «Non lo immagino. Per ora vivo il presente e la mia storia d’amore» tentenna per un momento Ousmane poi riprende «veramente un sogno ce l’ho. Spero che Richard mi porti con lui in Francia. Oggi sarei pronto a scappare e lasciare tutto. Mentire alla mia famiglia mi logora. Ho paura. Ogni singolo giorno ho paura di essere scoperto e di essere linciato. Per i gay qui, l’unica soluzione è trovare un fidanzato europeo che possa aiutarli ad emigrare. Ecco perché la maggior parte degli omosessuali senegalesi frequentano gli alberghi di lusso».
Stò zitta e penso. Che tristezza. Laggiù come dicono e pensano in tanti, troppi qui, sembra essere la sola soluzione e questa soluzione passa attraverso chi in Senegal arriva dall’Europa, ponte suo malgrado verso una nuova vita. Peccato poi che in gioco ci siano i sentimenti delle persone. Quelli no, non sono finzione, sono realtà. E se per una volta si partisse dalla radice del problema? Se per una volta si cominciasse dall’educazione nelle famiglie? Se si partisse dalla scuola? Se si arrivasse a far capire alle persone che l’omosessualità non è una malattia? Sorseggio anch’io il mio succo. Italia, Senegal, in fondo la situazione non è poi tanto diversa.