Milano, l'avvocato che difende gli immigrati in corsa per il Consiglio comunale

L.M. - 29 Aprile 2011
Facce nuove a Milano. Vi presentiamo Paolo Oddi, avvocato immigrazionista, in corsa con Sinistra Ecologia e Libertà per il Consiglio comunale di Milano. 
Quarantenne, omosessuale, avvocato, membro dell’ASGI (associazione studi giuridici sull’immigrazione), volontario di “Avvocati per niente”: Paolo Oddi, in quota Sinistra Ecologia e Libertà, corre per il Consiglio comunale di Milano con Giuliano Pisapia. Laureatosi in giurisprudenza con una tesi sul trattato di Schengen, si definisce avvocato immigrazionista perché con questo termine si intende «un approccio a 360 gradi», per «tutelare anche gli aspetti che inizialmente non emergono in una difesa penale ma che invece vanno presi in considerazione per uno straniero che difendi, sia civili che amministrativi» con una particolare attenzione alla tematica dell’espulsione «che è un tema molto forte nella mia attività quotidiana» adesso che «le norme sull’espulsione sono molto peggiorate».
Cosa ti ha spinto a candidarti?
«Sono sempre stato appassionato di politica, che ho scoperto intorno ai 20 anni. Da giovane ho iniziato a frequentare i Verdi, mi interessavano le questioni dell’ambientalismo urbano. Negli ultimi anni poi mi sono allontanato da loro. Mi ha incuriosito Sinistra Ecologia e Libertà, l’esperienza politica di Nichi Vendola, anche amministrativa, e mi sono accostato a SEL che stava nascendo a Milano due anni fa. Con SEL ho iniziato a fare dell’attività politica. Abbiamo organizzato alcune iniziative sul carcere, sul testamento biologico, sui diritti delle minoranze. Quando è nata poi la candidatura a sindaco di Milano noi di SEL abbiamo sollecitato Giuliano Pisapia a buttarsi in quest’avventura; e ho seguito la sua campagna per le primarie. Io sono un tecnico, gran parte della mia attività quotidiana si svolge nello studio legale, in tribunale. Ma vivendo in questa città, interessandomi dell’ambiente, dei diritti degli omosessuali, lavorando sui temi dell’immigrazione, mi è sembrato uno sbocco naturale quello impegnarmi personalmente».
Di quali figure necessita la politica secondo te?
«C’è bisogno di giovani, di precari, di donne, di gay, di persone che hanno maturato delle sensibilità e che possono portare dentro le istituzioni la loro storia che oggi non è rappresentata. Ho amici giovani, ho raccolto il loro disagio, la loro angoscia. Mi sembra che ci sia molta infelicità a Milano. Questa ricerca, questa corsa continua dei ventenni, trentenni, quarantenni. Milano ha espulso molti giovani (italiani, ndr), giovani che se ne sono andati. Per non parlare poi degli stranieri, anche se paradossalmente loro si adattano a fare lavori che i giovani italiani non vogliono più».
Sei partito dai diritti dei gay e ti sei poi avvicinato a quelli degli immigrati. C’è qualche analogia tra le due condizioni?
Ci sono molti punti di contatto, un vissuto comune di sentirsi minoranza, qualche ferita che sicuramente possiamo condividere, nel senso di essere stati in qualche momento della nostra vita discriminati per qualcosa».
Cosa significa oggi dichiararsi gay?
«Non è più come trent’ anni fa, quando dichiararsi gay a lavoro o in politica era ancora un tabù, e facevi un gesto di rottura. Ma è ancora importante farlo perché se lo si dice mentre si fa una corsa per il consiglio comunale vuol dire che non siamo così marginali, e si può essere stimolo per altri, magari per chi subisce discriminazioni, ostracismi familiari o sociali».
Parliamo di Milano. Come può essere migliorata la vita degli immigrati in città?
«E’ inaccettabile che gli immigrati debbano fare delle code notturne con bambini davanti alla Questura di Milano, per rinnovare o aggiornare pratiche relative al permesso di soggiorno. Come è inaccettabile che gli immigrati irregolari trattenuti nell’ex CPT (adesso CIE, Centro di identificazione ed espulsione) di via Corelli siano considerati alla stregua di spazzatura e che i loro parenti debbano aspettare sotto la tangenziale al freddo o sotto il sole cocente per poter entrare a parlare con persone che non sono recluse in via penale ma trattenute per essere espulse. La nostra proposta è che il Comune si faccia carico di aprire un tavolo di confronto permanente con Questura, Prefettura, Forze dell’ordine, Polizia locale, perché le questioni legate alla gestione dell’attuale normativa in tema immigrazione vengano svolte in maniera umana e rispettosa dei diritti inviolabili dell’uomo.
Così come l’ufficio stranieri del comune va ripotenziato: adesso come adesso è stato svuotato. Gli immigrati hanno bisogno di essere trattati bene dagli uffici pubblici che si occupano delle loro questioni, perché questo ricade anche sugli italiani. Siamo legati a doppio filo con loro, non dimentichiamolo mai. La frustrazione che subisce un lavoratore straniero nel vedersi rimpallare cento volte l’appuntamento per il ritiro del suo permesso di soggiorno è la stessa frustrazione che ha il datore di lavoro che non si spiega perché un suo dipendente debba ritornare quaranta volte in Questura.
Il rispetto dei loro diritti, la velocizzazione e miglioramento delle pratiche burocratiche degli immigrati significa anche far funzionare meglio l’economia e il lavoro degli italiani. Nel programma noi proponiamo la creazione di sportelli (che chiamiamo) “Nuove cittadinanze”; sportelli che devono essere istituiti a tutti i livelli, noi li vorremmo addirittura presso gli uffici anagrafe, decentrati. Gli sportelli saranno dotati di mediatori, non solo linguistici ma linguistico-culturali, facilitatori, in cui ci sono persone formate per far questo, quindi anche un investimento sulla formazione degli operatori. Sportelli competenti, che sanno dare risposte. Perché se gli interessati conoscono le procedure le pratiche si velocizzano. Poi dobbiamo occuparci di entrare nella rete delle “città interculturali”, che è un network italiano ed europeo. In Italia hanno aderito dieci città, tra cui Reggio Emilia, Bari, Genova, Torino, ma mancano quelle grandi: Milano, Roma e Napoli. Il network promuove politiche attive sull’integrazione: regolamenti condominiali condivisi, politiche per prevenire i conflitti, mediazione, prevenzione. Aiuta a migliorare i rapporti tra italiani e stranieri».
Ti dico due parole: rom e moschea. Cosa mi rispondi?
«Ti dico delle cose forti anche in questo caso, e cioè vergogna per come sono state gestite queste due questioni. Mi sono sentito di non far parte di un consesso civile nel sentire come sono stati trattati, nominati, insultati, discriminati i rom che non dobbiamo mai dimenticare hanno subito una persecuzione nel ‘900 culminata nell’Olocausto. Rom che in maggioranza non delinque, rom che in parte sono anche cittadini italiani.
L’amministrazione deve ringraziare la Casa della Carità, la Caritas che si è spesa fino alla morte per dare dignità e aiuto ai rom. Queste associazioni straordinarie hanno fatto mediazione sui campi, sono andate milioni di volte a parlare con i rom, si sono fatti carico di cause contro la discriminazione che sono state poi vinte, hanno riottenuto le case che nel piano Maroni erano state immotivatamente tolte. Certo, dobbiamo dare una risposta anche agli italiani che hanno paura, ma non continuando ad alimentarla; facendo più politiche sociali, di integrazione, facendo sì che i bambini delle famiglie rom possano andare a scuola, che sia garantito loro il diritto allo studio, perché attraverso lo studio integriamo anche le loro famiglie. Una politica attiva, insomma.
Come per i rom si può parlare di plurime violazioni di diritti umani, anche per la moschea si può parlare di violazione di un principio costituzionale che la Repubblica italiana garantisce a tutti i cittadini: la possibilità di esprimere liberamente la loro fede e quindi di poter pregare in modo libero».
Il centrosinistra in corsa a Milano è d’accordo con il cardinale Tettamanzi: a Milano c’è bisogno di una moschea?
«Sì. Perché che scena è vedere dei credenti musulmani pregare stesi in un garage? Che città è questa qui, che riduce le persone che la abitano in queste condizioni?».
Ci sono delle persone che non andranno a votare, anche adesso che l’obiettivo di una Milano di centrosinistra sembra raggiungibile. Cosa senti di dire a queste persone?
«Ho parlato qualche giorno fa con una ragazza laureata in psicologia che mi ha detto “non andrò a votare” perché non credo in nessuno, non mi rappresenta nessuno, tutto fa schifo, tutti promettono e poi quando sono lì. A questi ragazzi vorrei dire che non ho dei pulpiti, non farò comizi. Bisogna andare a votare perché è una svolta storica. Se vinciamo è per poche migliaia di voti, bisogna sapere che un voto fa la differenza, una persona che magari è a Barcellona e non torna a votare fa la differenza. Allora dico: stavolta vale la pena, ce la possiamo fare, finalmente dopo 17 anni possiamo tornare a governare Milano. Il voto è importante tanto più oggi che siamo in un momento così degradato della vita pubblica. Quindi, sì, uno scatto di orgoglio: andiamo in massa a votare e mandiamoli a casa, mandiamo a casa la Moratti, che ha lavorato male, non ci piace come si vive in questa città, e vogliamo cambiare. Ci dobbiamo credere».
Luigi Riccio