Il mare di mezzo

L.M. - 26 Giugno 2011
Il mare di mezzo di Gabriele Del Grande (fondatore del blog Fortress Europe). 220 pag, 15 euro. Infinito edizioni
Di Luigi Riccio

RECENSIONI. Il libro-inchiesta di Gabriele Del Grande traccia prima di tutto un’ umanità immensa. Generazioni che fuggono, spariscono, a volte ce la fanno, altre muoiono senza neanche poter vantare un luogo dove essere pianti. Algeria, Marocco, Libia, Tunisia, Eritrea, Etiopia, Sudan, Somalia, Niger, Burkina Faso. Il viaggio è lungo, e incerto, soprattutto; si può toccare con piede le coste di Lampedusa per essere poi respinti indietro, essere respinti quando si è ancora in mare, uccisi o arrestati senza che si sappia più nulla.

Il viaggio di Del Grande comincia con questo interrogativo; dai padri di Hannaba, in Algeria, alla ricerca dei loro figli imbarcati. In Italia non sono mai arrivati, il loro corpo non è mai stato consegnato alle famiglie. Dispersi, si direbbe. A meno che, come tanti, grazie agli accordi disumani stretti con i paesi a nord di Lampedusa, non siano rinchiusi in prigioni segrete, con l’unica colpa di aver osato cercare fortuna al di là del mediterraneo.

Gli ostacoli che il giornalista trova nella sua ricerca sono più di uno. In Tunisia, per esempio, è schedato dai servizi segreti -complice la sua presenza durante i disordini di Redeyef per le assunzioni pilotate alla Compagnia dei fosfati nel 2008, di cui tra l’altro ci fornisce un’ottima cronaca-. Ma il suo viaggio non si ferma. Continua in Libia, paese in cui la puzza di diritti negati si fa più forte. Grazie agli accordi stipulati dal Governo italiano con quello libico (Trattato di Bengasi, 1998), adesso è quest’ultimo a farsi carico dei migranti che salpano dalle proprie coste. Non assistendoli o fornendo loro cure, ovviamente. Bensì scaricandoli nelle prigioni di stato -finanziate con le tasse degli italiani- come Gatrun, Ganfuda, Sebha, Kufrah, Misratah. Senza distinzione di sesso – a parte per gli stupri, per cui si privilegia le donne-, e di età – nelle prigioni ci sono anche bambini-. Qualche differenza può farla la religione -gli eritrei, essendo cristiani, sono tra i soggetti più vulnerabili-. Ma in linea di massima le torture sono “democratiche”, cioè ce n’è per tutti.

Le lettere, le e-mail che Del Grande raccoglie in questo libro, di gente in fuga dai lavori forzati in Eritrea o da profughi dell’eterna guerra somala, ci mettono davanti una realtà difficile da mandar giù: cioè che si sta imprigionando, perseguendo persone e popoli che proprio dalla violenza e dall’orrore fuggono. Ma chi un motivo per scappare ce l’ ha, non si ferma. Le rotte cambiano; se la Libia non è più accessibile, allora si svolta verso Israele; le strade si fanno solo più lunghe, a volte non conducendo in nessun luogo, come i figli dei padri di Hannaba.
E’ a questa umanità ferita, umiliata, a cui Del Grande, sapientemente, dà voce.